SCHEDA n° 1
Una giornata scandita da una preghiera basata sulla fiducia
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo alimenta in noi il desiderio di appartarci, cuore a cuore, con Dio.
Spirito Santo fa’ che non restiamo ostaggi di persone, cose, situazioni;
insegnaci a prendere le distanze da tutto ciò che ci impedisce
di cogliere con chiarezza la voce di Dio.
Spirito Santo prega in noi, con noi e per noi perché abbiamo urgente bisogno
di una rinnovata intimità con il nostro Dio.
Spirito Santo riscalda i nostri cuori e rendici umili.
Spirito Santo abilitaci a chiamare Dio “Padre”, con la stessa semplicità
con cui ogni bambino si rivolge al proprio padre terreno.
Spirito Santo fa che attraverso la preghiera ogni nostra sofferenza, inquietudine
si trasformi in slancio verso il cielo e diventi dialogo. Amen
Dal Vangelo di Marco (Mc,1,32-37)
Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce e, trovatolo, gli dissero: «Tutti ti cercano!».
Dal Vangelo di Luca (Lc 11,1-5)
Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione».
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 05 Dicembre 2018
Oggi iniziamo un ciclo di catechesi sul “Padre nostro”. I Vangeli ci hanno consegnato dei ritratti molto vivi di Gesù come uomo di preghiera: Gesù pregava. Nonostante l’urgenza della sua missione e l’impellenza di tanta gente che lo reclama, Gesù sente il bisogno di appartarsi nella solitudine e di pregare. Il vangelo di Marco ci racconta questo dettaglio fin dalla prima pagina del ministero pubblico di Gesù (cfr 1,35). La giornata inaugurale di Gesù a Cafarnao si era conclusa in maniera trionfale. Calato il sole, moltitudini di ammalati giungono alla porta dove Gesù dimora: il Messia predica e guarisce. Si realizzano le antiche profezie e le attese di tanta gente che soffre: Gesù è il Dio vicino, il Dio che ci libera. Ma quella folla è ancora piccola se paragonata a tante altre folle che si raccoglieranno attorno al profeta di Nazareth; in certi momenti si tratta di assemblee oceaniche, e Gesù è al centro di tutto, l’atteso dalle genti, l’esito della speranza di Israele.
Eppure Lui si svincola; non finisce ostaggio delle attese di chi ormai lo ha eletto come leader. Che è un pericolo dei leader: attaccarsi troppo alla gente, non prendere le distanze. Gesù se ne accorge e non finisce ostaggio della gente. Fin dalla prima notte di Cafarnao, dimostra di essere un Messia originale. Nell’ultima parte della notte, quando ormai l’alba si annuncia, i discepoli lo cercano ancora, ma non riescono a trovarlo. Dov’è? Finché Pietro finalmente lo rintraccia in un luogo isolato, completamente assorto in preghiera. E gli dice: «Tutti ti cercano!» (Mc 1,37). L’esclamazione sembra essere la clausola apposta ad un successo plebiscitario, la prova della buona riuscita di una missione.
Ma Gesù dice ai suoi che deve andare altrove; che non è la gente a cercare Lui, ma è anzitutto Lui a cercare gli altri. Per cui non deve mettere radici, ma rimanere continuamente pellegrino sulle strade di Galilea (vv. 38-39). E anche pellegrino verso il Padre, cioè: pregando. In cammino di preghiera. Gesù prega.
E tutto accade in una notte di preghiera.
In qualche pagina della Scrittura sembra essere anzitutto la preghiera di Gesù, la sua intimità con il Padre, a governare tutto. Lo sarà per esempio soprattutto nella notte del Getsemani. L’ultimo tratto del cammino di Gesù (in assoluto il più difficile tra quelli che fino ad allora ha compiuto) sembra trovare il suo senso nel continuo ascolto che Gesù rende al Padre. Una preghiera sicuramente non facile, anzi, una vera e propria “agonia”, nel senso dell’agonismo degli atleti, eppure una preghiera capace di sostenere il cammino della croce.
Ecco il punto essenziale: lì, Gesù pregava.
Gesù pregava con intensità nei momenti pubblici, condividendo la liturgia del suo popolo, ma cercava anche luoghi raccolti, separati dal turbinio del mondo, luoghi che permettessero di scendere nel segreto della sua anima: è il profeta che conosce le pietre del deserto e sale in alto sui monti. Le ultime parole di Gesù, prima di spirare sulla croce, sono parole dei salmi, cioè della preghiera, della preghiera dei giudei: pregava con le preghiere che la mamma gli aveva insegnato.
Gesù pregava come prega ogni uomo del mondo. Eppure, nel suo modo di pregare, vi era anche racchiuso un mistero, qualcosa che sicuramente non è sfuggito agli occhi dei suoi discepoli, se nei vangeli troviamo quella supplica così semplice e immediata: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Loro vedevano Gesù pregare e avevano voglia di imparare a pregare: “Signore, insegnaci a pregare”. E Gesù non si rifiuta, non è geloso della sua intimità con il Padre, ma è venuto proprio per introdurci in questa relazione con il Padre. E così diventa maestro di preghiera dei suoi discepoli, come sicuramente vuole esserlo per tutti noi. Anche noi dovremmo dire: “Signore, insegnami a pregare. Insegnami”.
Anche se forse preghiamo da tanti anni, dobbiamo sempre imparare! L’orazione dell’uomo, questo anelito che nasce in maniera così naturale dalla sua anima, è forse uno dei misteri più fitti dell’universo. E non sappiamo nemmeno se le preghiere che indirizziamo a Dio siano effettivamente quelle che Lui vuole sentirsi rivolgere. La Bibbia ci dà anche testimonianza di preghiere inopportune, che alla fine vengono respinte da Dio: basta ricordare la parabola del fariseo e del pubblicano. Solamente quest’ultimo, il pubblicano, torna a casa dal tempio giustificato, perché il fariseo era orgoglioso e gli piaceva che la gente lo vedesse pregare e faceva finta di pregare: il cuore era freddo. E dice Gesù: questo non è giustificato «perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14). Il primo passo per pregare è essere umile, andare dal Padre e dire: “Guardami, sono peccatore, sono debole, sono cattivo”, ognuno sa cosa dire. Ma sempre si incomincia con l’umiltà, e il Signore ascolta. La preghiera umile è ascoltata dal Signore.
Perciò, iniziando questo ciclo di catechesi sulla preghiera di Gesù, la cosa più bella e più giusta che tutti quanti dobbiamo fare è di ripetere l’invocazione dei discepoli: “Maestro, insegnaci a pregare!”. Sarà bello, in questo tempo di Avvento, ripeterlo: “Signore, insegnami a pregare”. Tutti possiamo andare un po’ oltre e pregare meglio; ma chiederlo al Signore: “Signore, insegnami a pregare”. Facciamo questo, in questo tempo di Avvento, e Lui sicuramente non lascerà cadere nel vuoto la nostra invocazione.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 12 Dicembre 2018
Proseguiamo il cammino di catechesi sul “Padre nostro”, iniziato la scorsa settimana. Gesù mette sulle labbra dei suoi discepoli una preghiera breve, audace, fatta di sette domande – un numero che nella Bibbia non è casuale, indica pienezza. Dico audace perché, se non l’avesse suggerita il Cristo, probabilmente nessuno di noi – anzi, nessuno dei teologi più famosi - oserebbe pregare Dio in questa maniera.
Gesù infatti invita i suoi discepoli ad avvicinarsi a Dio e a rivolgergli con confidenza alcune richieste: anzitutto riguardo a Lui e poi riguardo a noi. Non ci sono preamboli nel “Padre nostro”. Gesù non insegna formule per “ingraziarsi” il Signore, anzi, invita a pregarlo facendo cadere le barriere della soggezione e della paura. Non dice di rivolgersi a Dio chiamandolo “Onnipotente”, “Altissimo”, “Tu, che sei tanto distante da noi, io sono un misero”: no, non dice così, ma semplicemente «Padre», con tutta semplicità, come i bambini si rivolgono al papà. E questa parola “Padre”, esprime la confidenza e la fiducia filiale.
La preghiera del “Padre nostro” affonda le sue radici nella realtà concreta dell’uomo. Ad esempio, ci fa chiedere il pane, il pane quotidiano: richiesta semplice ma essenziale, che dice che la fede non è una questione “decorativa”, staccata dalla vita, che interviene quando sono stati soddisfatti tutti gli altri bisogni. Semmai la preghiera comincia con la vita stessa. La preghiera – ci insegna Gesù – non inizia nell’esistenza umana dopo che lo stomaco è pieno: piuttosto si annida dovunque c’è un uomo, un qualsiasi uomo che ha fame, che piange, che lotta, che soffre e si domanda “perché”. La nostra prima preghiera, in un certo senso, è stato il vagito che ha accompagnato il primo respiro. In quel pianto di neonato si annunciava il destino di tutta la nostra vita: la nostra continua fame, la nostra continua sete, la nostra ricerca di felicità.
Gesù, nella preghiera, non vuole spegnere l’umano, non lo vuole anestetizzare. Non vuole che smorziamo le domande e le richieste imparando a sopportare tutto. Vuole invece che ogni sofferenza, ogni inquietudine, si slanci verso il cielo e diventi dialogo.
Avere fede, diceva una persona, è un’abitudine al grido.
Dovremmo essere tutti quanti come il Bartimeo del Vangelo (cfr Mc 10,46-52) – ricordiamo quel passo del Vangelo, Bartimeo, il figlio di Timeo -, quell’uomo cieco che mendicava alle porte di Gerico. Intorno a sé aveva tanta brava gente che gli intimava di tacere: “Ma stai zitto! Passa il Signore. Stati zitto. Non disturbare. Il Maestro ha tanto da fare; non disturbarlo. Tu sei fastidioso con le tue grida. Non disturbare”. Ma lui, non ascoltava quei consigli: con santa insistenza, pretendeva che la sua misera condizione potesse finalmente incontrare Gesù. E gridava più forte! E la gente educata: “Ma no, è il Maestro, per favore! Fai una brutta figura!”. E lui gridava perché voleva vedere, voleva essere guarito: «Gesù, abbi pietà di me!» (v. 47). Gesù gli ridona la vista, e gli dice: «La tua fede ti ha salvato» (v. 52), quasi a spiegare che la cosa decisiva per la sua guarigione è stata quella preghiera, quella invocazione gridata con fede, più forte del “buonsenso” di tanta gente che voleva farlo tacere. La preghiera non solo precede la salvezza, ma in qualche modo la contiene già, perché libera dalla disperazione di chi non crede a una via d’uscita da tante situazioni insopportabili.
Certo, poi, i credenti sentono anche il bisogno di lodare Dio. I vangeli ci riportano l’esclamazione di giubilo che prorompe dal cuore di Gesù, pieno di stupore riconoscente al Padre (cfr Mt 11,25-27). I primi cristiani hanno perfino sentito l’esigenza di aggiungere al testo del “Padre nostro” una dossologia: «Perché tua è la potenza e la gloria nei secoli» (Didaché, 8, 2).
Ma nessuno di noi è tenuto ad abbracciare la teoria che qualcuno in passato ha avanzato, che cioè la preghiera di domanda sia una forma debole della fede, mentre la preghiera più autentica sarebbe la lode pura, quella che cerca Dio senza il peso di alcuna richiesta. No, questo non è vero. La preghiera di domanda è autentica, è spontanea, è un atto di fede in Dio che è il Padre, che è buono, che è onnipotente. È un atto di fede in me, che sono piccolo, peccatore, bisognoso. E per questo la preghiera, per chiedere qualcosa, è molto nobile. Dio è il Padre che ha un’immensa compassione di noi, e vuole che i suoi figli gli parlino senza paura, direttamente chiamandolo “Padre”; o nelle difficoltà dicendo: “Ma Signore, cosa mi hai fatto?”. Per questo gli possiamo raccontare tutto, anche le cose che nella nostra vita rimangono distorte e incomprensibili. E ci ha promesso che sarebbe stato con noi per sempre, fino all’ultimo dei giorni che passeremo su questa terra. Preghiamo il Padre nostro, cominciando così, semplicemente: “Padre” o “Papà”. E Lui ci capisce e ci ama tanto.
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
Tra tutte le preghiere la più eccellente è certamente quella del “Signore”, o “Padre nostro”.
Essa possiede in sommo grado i cinque requisiti che ogni preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata, devota e umile.
1. È sicura
La preghiera, infatti, deve darci la sicurezza di poterci accostare “con piena fiducia al trono della grazia” (Eb 4,16), e “con fede, senza esitare”, perché, come dice S. Giacomo, “non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile” (Gc 1,6 7).
Ebbene, questa preghiera dà senz’altro molta fiducia perché è stata composta dal nostro Avvocato presso il Signore, l'Intercessore sapientissimo “nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2, 3) e del quale si dice: “Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1 2). Giustamente S. Cipriano dice: “Avendo come avvocato dinnanzi al Padre il Cristo, che è difensore per i nostri peccati, lasciamo parlare il nostro Avvocato”.
La sicurezza diventa ancora più grande e la nostra fiducia viene poi ulteriormente incoraggiata se si pensa a questo: che colui che ci ha insegnato questa preghiera, è lo stesso che, insieme al Padre, ha il compito di esaudirla, adempiendo quanto è detto nel salmo 91,15: “Mi invocherà e gli darò risposta”.
Per questo San Cipriano dice: “È una preghiera da amico e di familiare quella con la quale preghiamo Dio usando le sue stesse parole”.
E indubbiamente è questa la ragione per cui questa preghiera non si recita mai senza frutto, sicché essa ci ottiene tra l'altro, come dice S. Agostino, anche la remissione dei peccati veniali.
2. È retta
Ogni preghiera deve essere retta. Infatti ogni persona che prega deve chiedere a Dio le grazie che sono un bene per lui. San Giovanni Damasceno insegna che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi”.
Ecco perché molte volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose che non sono un bene per noi, come dice S. Giacomo: “Chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,3).
Sapere che cosa chiedere è difficilissimo, perché è difficilissimo conoscere quali siano i veri beni da desiderare. Si chiede infatti lecitamente nella preghiera solo quello che è lecito desiderare. Lo rilevava già S. Paolo quando scriveva ai Romani: “Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26).
Il Cristo però, che è nostro Maestro, ci ha personalmente insegnato quello che dobbiamo chiedere quando i discepoli gli chiesero: “Signore, insegnaci a pregare” (Lc 11,1). Perciò la nostra preghiera è rettissima quando chiediamo al Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere. Insegna in proposito S. Agostino: “Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto nella Preghiera del Signore”.
3. È ordinata
La preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio.
Ebbene: il giusto ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelle della terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33). E questo ordine appunto il Signore ci ha insegnato ad osservare nella sua preghiera, nella quale ci fa domandare prima i beni celesti e poi quelli terreni.
4. È devota
La preghiera deve essere anche devota, perché l'abbondanza della devozione rende il sacrificio dell'orazione accetto a Dio, secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sal 63,5 6).
La devozione si stempera se la preghiera è prolissa. Per questo il Signore stesso ci ha comandato di evitare lungaggini. Pregando non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole” (Mt 6,7). S. Agostino, scrivendo a Proba, le dà il seguente avvertimento: “Lungi dalla preghiera le molte parole. Non manchi però il molto supplicare finché dura il fervore”. Ecco perché il Signore ha voluto che questa preghiera fosse breve.
La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall'amore di Dio e del prossimo. E questi due amori vengono raccomandati nella preghiera del Pater.
L'amore di Dio viene stimolato quando, rivolti a Lui, lo chiamiamo “Padre”.
L’amore del prossimo invece viene stimolato quando, in comunione con tutti, preghiamo per tutti dicendo al plurale: “Padre nostro”. E “rimetti a noi i nostri debiti”. L’amore del prossimo infatti conduce a questo.
5. È umile
Da ultimo, la preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell'umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11).
E questa umiltà viene osservata nel Padre nostro. Infatti si ha vera umiltà quando uno non presume assolutamente nelle proprie forze, ma aspetta tutto dalla potenza divina alla quale si rivolge supplichevole.
DALLA REGOLA DI VITA
art 28: La vita di preghiera dell’Orionina ha un respiro ecclesiale e popolare. E’ la preghiera della Chiesa, la preghiera del cristiano, del popolo semplice e umile; è preghiera “senza astruserie e sentimentalismi”, frutto di “pietà soda eignita”, radicata nella Parola di Dio, nei Sacramenti, nella vita della Chiesa, nella carità. Essa si innesta nei ritmi celebrativi della liturgia che rende santo il tempo e santa la vita della consacrata, vero culto gradito a Dio. Vivendo l’unione con Dio durante il lavoro e lo scorrere dei giorni, l’Orionina amalgama nella preghiera le persone e le attività cui la volontà di Dio la chiama nella santa fatica quotidiana. L’ uomo tanto vale quanto prega. Del nostro lavoro tanto resta quanto è cementato dalla orazione”.
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2738: La rivelazione della preghiera nell’Economia della salvezza ci insegna che la fede si appoggia sull’azione di Dio nella storia. La confidenza filiale è suscitata dall’azione di Dio per eccellenza: la Passione e la Risurrezione del Figlio suo. La preghiera cristiana è cooperazione alla Providenza di Dio, al suo Disegno di amore per gli uomini.
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
Fede, preghiera, coraggio e avanti in Domino!
... Così Iddio ci aiuti, o miei cari Figli, Alunni e Benefattori, e ci conforti sino alla morte et ultra!
Amare nostro Signore, la nostra celeste Madre e Fondatrice Maria Santissima; amare il Papa, i Vescovi, la Chiesa; amare i piccoli e i poveri più abbandonati; mi pare di esser già un po' in Paradiso; non sento più la stanchezza, non le calunnie, non i dolori, che pur, grazie a Dio, non sono pochi.
Allora, anzi, Gesù mi porta a chiedergli ardore nell'operare la salvezza della anime:
fede, più fede, "ma di quella", come diceva il Cottolengo; amore alle angustie, alle ostilità - alla Croce: o beata tribolazione, o pane di consolazione!
Fede, preghiera e coraggio, figliuoli e amici miei, e avanti in Domino!
Cercate costantemente di avere l'umiltà e la carità: state buoni, pii, lavorate, camminate sotto lo sguardo di Dio: il mio cuore è con voi!
PREGHIERA FINALE
Dio, fonte d'amore, io mi affido a te;
Tu sei il Signore della mia vita;
per mezzo di Gesù, nello Spirito Santo, agisci in me;
tutto io compia secondo il tuo amore;
la tua volontà sia fatta in me
e in tutte le creature.
Tu sei gioia e pace al mio cuore;
dissolvi le tenebre che avvolgono la mia vita:
tutto sia luce in me!
Padre, dolcezza di coloro che si abbandonano a te,
per Gesù, nello Spirito Santo,
donami il gusto del bene,
la gioia di vivere con i fratelli
la perfetta unità nella carità,
una vita nuova, libera e immersa nel tuo amore.
Con la tua potenza e la tua tenerezza
spezza le durezze del mio cuore;
liberami da ogni male.
Con la tua misericordia perdona il nostro peccato;
guarisci le mie infermità e malattie;
effondi su di me la tua Grazia;
crea in me uno spirito nuovo
capace di amare e pregare, di ascoltare e di servire.
Guida il mio cammino,
per intercessione di Maria,
Madre dell'amore. Amen
(don Adriano Gennari, fondatore del Cenacolo eucaristico della trasfigurazione, Torino)
SCHEDA n° 2
Come “figli del Padre” siamo chiamati a pregare in ogni circostanza
per non venire meno durante il cammino
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo rendici costruttori del Regno di Dio:
testimoni e promotori della “nuova” prospettiva dell’Amore portata da Gesù.
Spirito Santo insegnaci a sostare in silenzio dinanzi a Gesù – Eucaristia,
dinanzi a Colui che ci ha insegnato a chiamare Dio “Padre”;
Spirito Santo aiutaci a lasciarci rinnovare dalla potenza della paternità di Dio
per poter riflettere un raggio della sua bontà su questo nostro mondo
così tanto assetato di bene e in attesa di belle notizie.
Spirito Santo guarisci la nostra preghiera “parolaia”
e lascia che essa nasca da dentro di noi,
nella certezza che è sufficiente mettersi “sotto lo Sguardo Eucaristico”
per essere guariti e guidati. Amen
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 5,1-11)
Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.
Dal Vangelo secondo Luca (Lc11,5-13)
Poi aggiunse: «Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; e se quegli dall'interno gli risponde: Non m'importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; 8 vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza. Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!».
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 02 Gennaio 2019
Proseguiamo le nostre catechesi sul “Padre nostro”, illuminati dal mistero del Natale che abbiamo da poco celebrato.
Il Vangelo di Matteo colloca il testo del “Padre nostro” in un punto strategico, al centro del discorso della montagna (cfr 6,9-13). Intanto osserviamo la scena: Gesù sale sulla collina presso il lago, si mette a sedere; intorno a sé ha la cerchia dei suoi discepoli più intimi, e poi una grande folla di volti anonimi. È questa assemblea eterogenea che riceve per prima la consegna del “Padre nostro”.
La collocazione, come detto, è molto significativa; perché in questo lungo insegnamento, che va sotto il nome di “discorso della montagna” (cfr Mt 5,1-7,27), Gesù condensa gli aspetti fondamentali del suo messaggio. L’esordio è come un arco decorato a festa: le Beatitudini. Gesù incorona di felicità una serie di categorie di persone che nel suo tempo – ma anche nel nostro! – non erano molto considerate. Beati i poveri, i miti, i misericordiosi, le persone umili di cuore… Questa è la rivoluzione del Vangelo. Dove c’è il Vangelo, c’è rivoluzione. Il Vangelo non lascia quieto, ci spinge: è rivoluzionario. Tutte le persone capaci di amore, gli operatori di pace che fino ad allora erano finiti ai margini della storia, sono invece i costruttori del Regno di Dio. È come se Gesù dicesse: avanti voi che portate nel cuore il mistero di un Dio che ha rivelato la sua onnipotenza nell’amore e nel perdono!
Da questo portale d’ingresso, che capovolge i valori della storia, fuoriesce la novità del Vangelo. La Legge non deve essere abolita ma ha bisogno di una nuova interpretazione, che la riconduca al suo senso originario. Se una persona ha il cuore buono, predisposto all’amore, allora comprende che ogni parola di Dio deve essere incarnata fino alle sue ultime conseguenze. L’amore non ha confini: si può amare il proprio coniuge, il proprio amico e perfino il proprio nemico con una prospettiva del tutto nuova. Dice Gesù: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,44-45).
Ecco il grande segreto che sta alla base di tutto il discorso della montagna: siate figli del Padre vostro che è nei cieli. Apparentemente questi capitoli del Vangelo di Matteo sembrano essere un discorso morale, sembrano evocare un’etica così esigente da apparire impraticabile, e invece scopriamo che sono soprattutto un discorso teologico. Il cristiano non è uno che si impegna ad essere più buono degli altri: sa di essere peccatore come tutti. Il cristiano semplicemente è l’uomo che sosta davanti al nuovo Roveto Ardente, alla rivelazione di un Dio che non porta l’enigma di un nome impronunciabile, ma che chiede ai suoi figli di invocarlo con il nome di “Padre”, di lasciarsi rinnovare dalla sua potenza e di riflettere un raggio della sua bontà per questo mondo così assetato di bene, così in attesa di belle notizie.
Ecco dunque come Gesù introduce l’insegnamento della preghiera del “Padre nostro”. Lo fa prendendo le distanze da due gruppi del suo tempo. Anzitutto gli ipocriti: «Non siate simili agli ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando ritti, per essere visti dalla gente» (Mt 6,5). C’è gente che è capace di tessere preghiere atee, senza Dio e lo fanno per essere ammirati dagli uomini. E quante volte noi vediamo lo scandalo di quelle persone che vanno in chiesa e stanno lì tutta la giornata o vanno tutti i giorni e poi vivono odiando gli altri o parlando male della gente. Questo è uno scandalo! Meglio non andare in chiesa: vivi così, come fossi ateo. Ma se tu vai in chiesa, vivi come figlio, come fratello e dà una vera testimonianza, non una contro-testimonianza. La preghiera cristiana, invece, non ha altro testimone credibile che la propria coscienza, dove si intreccia intensissimo un continuo dialogo con il Padre: «Quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto» (Mt 6,6).
Poi Gesù prende le distanze dalla preghiera dei pagani: «Non sprecate parole […]: essi credono di venire ascoltati a forza di parole» (Mt 6,7). Qui forse Gesù allude a quella “captatio benevolentiae” che era la necessaria premessa di tante preghiere antiche: la divinità doveva essere in qualche modo ammansita da una lunga serie di lodi, anche di preghiere. Pensiamo a quella scena del Monte Carmelo, quando il profeta Elia sfidò i sacerdoti di Baal. Loro gridavano, ballavano, chiedevano tante cose perché il loro dio li ascoltasse. E invece Elia, stava zitto e il Signore si rivelò a Elia. I pagani pensano che parlando, parlando, parlando, parlando si prega. E anche io penso a tanti cristiani che credono che pregare è – scusatemi – “parlare a Dio come un pappagallo”. No! Pregare si fa dal cuore, da dentro. Tu invece – dice Gesù –, quando preghi, rivolgiti a Dio come un figlio a suo padre, il quale sa di quali cose ha bisogno prima ancora che gliele chieda (cfr Mt 6,8). Potrebbe essere anche una preghiera silenziosa, il “Padre nostro”: basta in fondo mettersi sotto lo sguardo di Dio, ricordarsi del suo amore di Padre, e questo è sufficiente per essere esauditi.
È bello pensare che il nostro Dio non ha bisogno di sacrifici per conquistare il suo favore! Non ha bisogno di niente, il nostro Dio: nella preghiera chiede solo che noi teniamo aperto un canale di comunicazione con Lui per scoprirci sempre suoi figli amatissimi. E Lui ci ama tanto.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 09 Gennaio 2019
La catechesi di oggi fa riferimento al Vangelo di Luca. Infatti, è soprattutto questo Vangelo, fin dai racconti dell’infanzia, a descrivere la figura del Cristo in un’atmosfera densa di preghiera. In esso sono contenuti i tre inni che scandiscono ogni giorno la preghiera della Chiesa: il Benedictus, il Magnificat e il Nunc dimittis.
E in questa catechesi sul Padre Nostro andiamo avanti, vediamo Gesù come orante. Gesù prega. Nel racconto di Luca, ad esempio, l’episodio della trasfigurazione scaturisce da un momento di preghiera. Dice così: «Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (9,29). Ma ogni passo della vita di Gesù è come sospinto dal soffio dello Spirito che lo guida in tutte le azioni. Gesù prega nel battesimo al Giordano, dialoga con il Padre prima di prendere le decisioni più importanti, si ritira spesso nella solitudine a pregare, intercede per Pietro che di lì a poco lo rinnegherà. Dice così: «Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno» (Lc 22,31-32). Questo consola: sapere che Gesù prega per noi, prega per me, per ognuno di noi perché la nostra fede non venga meno. E questo è vero. “Ma padre, ancora lo fa?” Ancora lo fa, davanti al Padre. Gesù prega per me. Ognuno di noi può dirlo. E anche possiamo dire a Gesù: “Tu stai pregando per me, continua a pregare che ne ho bisogno”. Così: coraggiosi.
Perfino la morte del Messia è immersa in un clima di preghiera, tanto che le ore della passione appaiono segnate da una calma sorprendente: Gesù consola le donne, prega per i suoi crocifissori, promette il paradiso al buon ladrone, e spira dicendo: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). La preghiera di Gesù pare attutire le emozioni più violente, i desideri di vendetta e di rivalsa, riconcilia l’uomo con la sua nemica acerrima, riconcilia l’uomo con questa nemica, che è la morte.
È sempre nel Vangelo di Luca che troviamo la richiesta, espressa da uno dei discepoli, di poter essere educati da Gesù stesso alla preghiera. E dice così: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Vedevano lui che pregava. “Insegnaci – anche noi possiamo dire al Signore – Signore tu stai pregando per me, lo so, ma insegna a me a pregare, perché anche io possa pregare”.
Da questa richiesta – «Signore, insegnaci a pregare» – nasce un insegnamento abbastanza esteso, attraverso il quale Gesù spiega ai suoi con quali parole e con quali sentimenti si devono rivolgere a Dio.
La prima parte di questo insegnamento è proprio il Padre Nostro. Pregate così: “Padre, che sei nei cieli”. “Padre”: quella parola tanto bella da dire. Noi possiamo stare tutto il tempo della preghiera con quella parola soltanto: “Padre”. E sentire che abbiamo un padre: non un padrone né un patrigno. No: un padre. Il cristiano si rivolge a Dio chiamandolo anzitutto “Padre”.
In questo insegnamento che Gesù dà ai suoi discepoli è interessante soffermarsi su alcune istruzioni che fanno da corona al testo della preghiera. Per darci fiducia, Gesù spiega alcune cose. Esse insistono sugli atteggiamenti del credente che prega. Per esempio, c’è la parabola dell’amico importuno, che va a disturbare un’intera famiglia che dorme perché all’improvviso è arrivata una persona da un viaggio e non ha pani da offrirgli. Cosa dice Gesù a questo che bussa alla porta, e sveglia l’amico?: «Vi dico – spiega Gesù – che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono» (Lc 11,9). Con questo vuole insegnarci a pregare e a insistere nella preghiera. E subito dopo fa l’esempio di un padre che ha un figlio affamato. Tutti voi, padri e nonni, che siete qui, quando il figlio o il nipotino chiede qualcosa, ha fame, e chiede e chiede, poi piange, grida, ha fame: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce?» (v. 11). E tutti voi avete l’esperienza quando il figlio chiede, voi date da mangiare quello che chiede, per il bene di lui.
Con queste parole Gesù fa capire che Dio risponde sempre, che nessuna preghiera resterà inascoltata, perché? Perché Lui è Padre, e non dimentica i suoi figli che soffrono.
Certo, queste affermazioni ci mettono in crisi, perché tante nostre preghiere sembra che non ottengano alcun risultato. Quante volte abbiamo chiesto e non ottenuto – ne abbiamo l’esperienza tutti – quante volte abbiamo bussato e trovato una porta chiusa? Gesù ci raccomanda, in quei momenti, di insistere e di non darci per vinti. La preghiera trasforma sempre la realtà, sempre. Se non cambiano le cose attorno a noi, almeno cambiamo noi, cambia il nostro cuore. Gesù ha promesso il dono dello Spirito Santo ad ogni uomo e a ogni donna che prega.
Possiamo essere certi che Dio risponderà. L’unica incertezza è dovuta ai tempi, ma non dubitiamo che Lui risponderà. Magari ci toccherà insistere per tutta la vita, ma Lui risponderà. Ce lo ha promesso: Lui non è come un padre che dà una serpe al posto di un pesce. Non c’è nulla di più certo: il desiderio di felicità che tutti portiamo nel cuore un giorno si compirà. Dice Gesù: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui?» (Lc 18,7). Sì, farà giustizia, ci ascolterà. Che giorno di gloria e di risurrezione sarà mai quello! Pregare è fin da ora la vittoria sulla solitudine e sulla disperazione. Pregare. La preghiera cambia la realtà, non dimentichiamolo. O cambia le cose o cambia il nostro cuore, ma sempre cambia. Pregare è fin da ora la vittoria sulla solitudine e sulla disperazione. È come vedere ogni frammento del creato che brulica nel torpore di una storia di cui a volte non afferriamo il perché. Ma è in movimento, è in cammino, e alla fine di ogni strada, cosa c’è alla fine della nostra strada? Alla fine della preghiera, alla fine di un tempo in cui stiamo pregando, alla fine della vita: cosa c’è? C’è un Padre che aspetta tutto e aspetta tutti con le braccia spalancate. Guardiamo questo Padre.
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
La preghiera del “Pater” è la più eccellente fra tutte anche perché produce tre vantaggi, procura tre grandi benefici.
1. È rimedio utile ed efficace contro il male perché:
libera dai peccati commessi: “Tu hai perdonato la malizia del mio peccato. Per questo ti prega ogni fedele” (Sal 32,5 6). Il ladrone in croce pregò così e ottenne il perdono: “Oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,43), e per la sua preghiera il pubblicano tornò a casa giustificato (cf. Lc 18,14).
libera inoltre dalla paura dei peccati imminenti, dalle tribolazioni e dalle tristezze. Dice la Scrittura: “Uno di voi è triste? Preghi (serenamente)” (Gc 5,13).
libera infine dalle persecuzioni e dai nemici. Diceva al riguardo il salmista: “Invece di volermi bene, mi colpivano; ma io pregavo” (Sal 109,4).
2. È il mezzo efficace e utile per ottenere tutto ciò che desideriamo.
Lo ha promesso Gesù: “Tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato” (Mc 11,24).
Se poi non veniamo esauditi, è perché non ci atteniamo alla esortazione del Signore di “pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 18,1).
Oppure perché non chiediamo quello che è meglio per la nostra salvezza, come dice S. Agostino: “È buono il Signore, il quale spesso non ci dà quel che vogliamo, per darci quello che dovremmo preferire”. Ciò si riscontra in S. Paolo, che per tre volte chiese di venire liberato da una spina nella carne, ma non fu ascoltato (cf. 2 Cor 12, 7).
3. È utile poi perché ci rende familiari a Dio, così da potergli dire con confidenza: “Come incenso salga a te la mia preghiera” (Sal 141,2).
DALLA REGOLA DI VITA
art 8: Le Orionine cercano di realizzare in se stesse quella appartenenza a Dio che Gesù Cristo attuò nella sua vita, e si dedicano a seguire i consigli evangelici, lasciandosi plasmare dallo spirito delle beatitudini e dalla mistica della carità ecclesiale: “facciamo generosamente della nostra vita tutta un gioioso olocausto di cristiana e apostolica carità, un’ostia pura e monda di sacrificio ai piedi del Papa e della Chiesa”.
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2763: Tutte le Scritture (la Legge, i Profeti e i Salmi) sono compiute in Cristo. Il Vangelo è questa <
La preghiera del Pater Noster è perfettissima… Nella preghiera del Signore non solo vengono domandate tutte le cose che possiamo rettamente desiderare, ma anche nell’ordine in cui devono essere desiderate: cosicché questa preghiera non solo insegna a chiedere, ma plasma anche tutti i nostri affetti. (San Tommaso D’Aquino - Summa Theologiae).
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
Dare la vita cantando l’amore
Lo splendore e l'ardore divino non m'incenerisce, ma mi tempra, mi purifica e sublima e mi dilata il cuore, così che vorrei stringere nelle mie piccole braccia umane tutte le creature per portarle a Dio.
E vorrei farmi cibo spirituale per i miei fratelli che hanno fame e sete di verità e di Dio; vorrei vestire di Dio gli ignudi, dare la luce di Dio ai ciechi e ai bramosi di maggior luce, aprire i cuori alle innumerevoli miserie umane e farmi servo dei servi distribuendo la mia vita ai più indigenti e derelitti; vorrei diventare lo stolto di Cristo e vivere e morire della stoltezza della carità per i miei fratelli!
Amare sempre e dare la vita cantando l'Amore! Spogliarmi di tutto!
Seminare la carità lungo ogni sentiero; seminare Dio in tutti i modi, in tutti i solchi; inabissarmi sempre infinitamente e volare sempre più alto infinitamente, cantando Gesù e la Santa Madonna e non fermarmi mai.
Fare che i solchi diventino luminosi di Dio; diventare un uomo buono tra i miei fratelli; abbassare, stendere sempre le mani e il cuore a raccogliere pericolanti debolezze e miserie e porle sull’altare, perché in Dio diventino le forze di Dio e grandezza di Dio.
Gesù è morto con le braccia aperte.È Dio che si è abbassato e immolato con le braccia aperte. Carità! Voglio cantare la carità! Avere una gran pietà per tutti!
PREGHIERA FINALE
Non dire: PADRE
se ogni giorno non ti comporti da figlio.
Non dire: NOSTRO
se vivi soltanto del tuo egoismo.
Non dire: CHE SEI NEI CIELI
se pensi solo alle cose terrene.
Non dire: VENGA IL TUO REGNO
se lo confondi con il successo materiale
Non dire: SIA FATTA LA TUA VOLONTA'
se non l'accetti anche quando è dolorosa.
Non dire: DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO
se non ti preoccupi della gente che ha fame.
Non dire: PERDONA I NOSTRI DEBITI
se non sei disposto a perdonare gli altri.
Non dire: NON CI INDURRE IN TENTAZIONE
se continui a vivere nell'ambiguità.
Non dire: LIBERACI DAL MALE
se non ti opponi alle opere malvagie.
Non dire: AMEN
se non prendi sul serio le parole del
PADRE NOSTRO.
SCHEDA n° 3
Dal silenzio della propria camera un grido: Abbà Padre
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo insegnaci a guardare Dio e a lasciarci guardare da Lui.
Spirito Santo liberaci da ogni forma di intimismo,
dal pericolo di lasciare il mondo fuori dalla nostra camera;
insegnaci, piuttosto, a portare nella preghiera ogni persona,
ogni situazione, ogni tipo di ferita.
Spirito Santo insegnaci a pregare “al plurale”,
a non ripiegarci sulle nostre necessità, mancanza, bisogni
ma ad avere un “cuore grande e magnanimo” come quello del nostro Don Orione,
per arrivare ad ogni “dettaglio” della vita del nostro prossimo
portandovi tenerezza, compassione e benedizione.
Spirito Santo insegnaci a vivere da fratelli. Amen
.
Dalla lettera di san Paolo ai Romani (Rm 8,15)
Voi infatti non avete ricevuto uno spirito di schiavitù per cadere nuovamente nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di adozione per il quale gridiamo: «Abba, Padre».
Dalla lettera di san Paolo ai Romani Galati (Gal 4,6)
Ora perché voi siete figli, Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori che grida: «Abba, Padre».
Dal vangelo secondo Matteo (Mt 6,5)
E quando tu preghi, non essere come gli ipocriti, perché essi amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini; in verità vi dico, che essi hanno già ricevuto il loro premio.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 16 Gennaio 2019
Proseguendo le catechesi sul “Padre nostro”, oggi partiamo dall’osservazione che, nel Nuovo Testamento, la preghiera sembra voler arrivare all’essenziale, fino a concentrarsi in una sola parola: Abbà, Padre.
Abbiamo ascoltato ciò che scrive san Paolo nella Lettera ai Romani: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: “Abbà! Padre!”» (8,15). E ai Galati l’Apostolo dice: «E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: “Abbà! Padre!”» ( Gal 4,6). Ritorna per due volte la stessa invocazione, nella quale si condensa tutta la novità del Vangelo.
Dopo aver conosciuto Gesù e ascoltato la sua predicazione, il cristiano non considera più Dio come un tiranno da temere, non ne ha più paura ma sente fiorire nel suo cuore la fiducia in Lui: può parlare con il Creatore chiamandolo “Padre”. L’espressione è talmente importante per i cristiani che spesso si è conservata intatta nella sua forma originaria: " Abbà".
È raro che nel Nuovo Testamento le espressioni aramaiche non vengano tradotte in greco. Dobbiamo immaginare che in queste parole aramaiche sia rimasta come “registrata” la voce di Gesù stesso: hanno rispettato l’idioma di Gesù. Nella prima parola del “Padre nostro” troviamo subito la radicale novità della preghiera cristiana.
Non si tratta solo di usare un simbolo – in questo caso, la figura del padre – da legare al mistero di Dio; si tratta invece di avere, per così dire, tutto il mondo di Gesù travasato nel proprio cuore. Se compiamo questa operazione, possiamo pregare con verità il “Padre nostro”. Dire “Abbà” è qualcosa di molto più intimo, più commovente che semplicemente chiamare Dio “Padre”. Ecco perché qualcuno ha proposto di tradurre questa parola aramaica originaria “Abbà” con “Papà” o “Babbo”. Invece di dire “Padre nostro”, dire “Papà, Babbo”. Noi continuiamo a dire “Padre nostro”, ma con il cuore siamo invitati a dire “Papà”, ad avere un rapporto con Dio come quello di un bambino con il suo papà, che dice “papà” e dice “babbo”. Infatti queste espressioni evocano affetto, evocano calore, qualcosa che ci proietta nel contesto dell’età infantile: l’immagine di un bambino completamente avvolto dall’abbraccio di un padre che prova infinita tenerezza per lui. E per questo, cari fratelli e sorelle, per pregare bene, bisogna arrivare ad avere un cuore di bambino. Non un cuore sufficiente: così non si può pregare bene. Come un bambino nelle braccia di suo padre, del suo papà, del suo babbo.
Ma sicuramente sono i Vangeli a introdurci meglio nel senso di questa parola. Cosa significa per Gesù, questa parola? Il “Padre nostro” prende senso e colore se impariamo a pregarlo dopo aver letto, per esempio, la parabola del padre misericordioso, nel capitolo 15° di Luca (cfr Lc 15,11-32). Immaginiamo questa preghiera pronunciata dal figlio prodigo, dopo aver sperimentato l’abbraccio di suo padre che lo aveva atteso a lungo, un padre che non ricorda le parole offensive che lui gli aveva detto, un padre che adesso gli fa capire semplicemente quanto gli sia mancato. Allora scopriamo come quelle parole prendono vita, prendono forza. E ci chiediamo: è mai possibile che Tu, o Dio, conosca solo amore? Tu non conosci l’odio? No – risponderebbe Dio – io conosco solo amore. Dov’è in Te la vendetta, la pretesa di giustizia, la rabbia per il tuo onore ferito? E Dio risponderebbe: Io conosco solo amore.
Il padre di quella parabola ha nei suoi modi di fare qualcosa che molto ricorda l’animo di una madre. Sono soprattutto le madri a scusare i figli, a coprirli, a non interrompere l’empatia nei loro confronti, a continuare a voler bene, anche quando questi non meriterebbero più niente.
Basta evocare questa sola espressione – Abbà – perché si sviluppi una preghiera cristiana.
E San Paolo, nelle sue lettere, segue questa stessa strada, e non potrebbe essere altrimenti, perché è la strada insegnata da Gesù: in questa invocazione c’è una forza che attira tutto il resto della preghiera.
Dio ti cerca, anche se tu non lo cerchi. Dio ti ama, anche se tu ti sei dimenticato di Lui. Dio scorge in te una bellezza, anche se tu pensi di aver sperperato inutilmente tutti i tuoi talenti. Dio è non solo un padre, è come una madre che non smette mai di amare la sua creatura. D’altra parte, c’è una “gestazione” che dura per sempre, ben oltre i nove mesi di quella fisica; è una gestazione che genera un circuito infinito d’amore.
Per un cristiano, pregare è dire semplicemente “Abbà”, dire “Papà”, dire “Babbo”, dire “Padre” ma con la fiducia di un bambino.
Può darsi che anche a noi capiti di camminare su sentieri lontani da Dio, come è successo al figlio prodigo; oppure di precipitare in una solitudine che ci fa sentire abbandonati nel mondo; o, ancora, di sbagliare ed essere paralizzati da un senso di colpa. In quei momenti difficili, possiamo trovare ancora la forza di pregare, ricominciando dalla parola “Padre”, ma detta con il senso tenero di un bambino: “Abbà”, “Papà”. Lui non ci nasconderà il suo volto. Ricordate bene: forse qualcuno ha dentro di sé cose brutte, cose che non sa come risolvere, tanta amarezza per avere fatto questo e quest’altro… Lui non nasconderà il suo volto. Lui non si chiuderà nel silenzio. Tu digli “Padre” e Lui ti risponderà. Tu hai un padre. “Sì, ma io sono un delinquente…”. Ma hai un padre che ti ama! Digli “Padre”, incomincia a pregare così, e nel silenzio ci dirà che mai ci ha persi di vista. “Ma, Padre, io ho fatto questo…” – “Mai ti ho perso di vista, ho visto tutto. Ma sono rimasto sempre lì, vicino a te, fedele al mio amore per te”. Quella sarà la risposta. Non dimenticatevi mai di dire “Padre”. Grazie.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 13 Febbraio 2019
Continuiamo il nostro percorso per imparare sempre meglio a pregare come Gesù ci ha insegnato. Dobbiamo pregare come Lui ci ha insegnato a farlo.
Lui ha detto: quando preghi, entra nel silenzio della tua camera, ritirati dal mondo e rivolgiti a Dio chiamandolo “Padre!”. Gesù vuole che i suoi discepoli non siano come gli ipocriti che pregano stando dritti in piedi nelle piazze per essere ammirati dalla gente (cfr Mt6,5). Gesù non vuole ipocrisia. La vera preghiera è quella che si compie nel segreto della coscienza, del cuore: imperscrutabile, visibile solo a Dio. Io e Dio. Essa rifugge dalla falsità: con Dio è impossibile fingere. È impossibile, davanti a Dio non c’è trucco che abbia potere, Dio ci conosce così, nudi nella coscienza, e fingere non si può. Alla radice del dialogo con Dio c’è un dialogo silenzioso, come l’incrocio di sguardi tra due persone che si amano: l’uomo e Dio incrociano gli sguardi, e questa è preghiera. Guardare Dio e lasciarsi guardare da Dio: questo è pregare. “Ma, padre, io non dico parole…”. Guarda Dio e lasciati guardare da Lui: è una preghiera, una bella preghiera!
Eppure, nonostante la preghiera del discepolo sia tutta confidenziale, non scade mai nell’intimismo. Nel segreto della coscienza, il cristiano non lascia il mondo fuori dalla porta della sua camera, ma porta nel cuore le persone e le situazioni, i problemi, tante cose, tutte le porto nella preghiera.
C’è un’assenza impressionante nel testo del “Padre nostro”. Se io domandassi a voi qual è l’assenza impressionante nel testo del “Padre nostro”? Non sarà facile rispondere. Manca una parola. Pensate tutti: che cosa manca nel “Padre nostro”? Pensate, che cosa manca? Una parola. Una parola che ai nostri tempi – ma forse sempre – tutti tengono in grande considerazione. Qual è la parola che manca nel “Padre nostro” che preghiamo tutti i giorni? Per risparmiare tempo la dirò io: manca la parola “io”. Mai si dice “io”. Gesù insegna a pregare avendo sulle labbra anzitutto il “Tu”, perché la preghiera cristiana è dialogo: “sia santificato il tuo nome, venga iltuo regno, sia fatta la tua volontà”. Non il mio nome, il mio regno, la mia volontà. Io no, non va. E poi passa al “noi”. Tutta la seconda parte del “Padre nostro” è declinata alla prima persona plurale: “dacci il nostro pane quotidiano, rimetti a noi i nostri debiti, non abbandonarci alla tentazione, liberaci dal male”. Perfino le domande più elementari dell’uomo – come quella di avere del cibo per spegnere la fame – sono tutte al plurale. Nella preghiera cristiana, nessuno chiede il pane per sé: dammi il pane di oggi, no, dacci, lo supplica per tutti, per tutti i poveri del mondo. Non bisogna dimenticare questo, manca la parola “io”. Si prega con il tu e con il noi. È un buon insegnamento di Gesù, non dimenticatelo.
Perché? Perché non c’è spazio per l’individualismo nel dialogo con Dio. Non c’è ostentazione dei propri problemi come se noi fossimo gli unici al mondo a soffrire. Non c’è preghiera elevata a Dio che non sia la preghiera di una comunità di fratelli e sorelle, il noi: siamo in comunità, siamo fratelli e sorelle, siamo un popolo che prega, “noi”. Una volta il cappellano di un carcere mi ha fatto una domanda: “Mi dica, padre, qual è la parola contraria a ‘io’?”. E io, ingenuo, ho detto: “Tu”. “Questo è l’inizio della guerra. La parola opposta a ‘io’ è ‘noi’, dove c’è la pace, tutti insieme”. È un bell’insegnamento che ho ricevuto da quel prete.
Nella preghiera, un cristiano porta tutte le difficoltà delle persone che gli vivono accanto: quando scende la sera, racconta a Dio i dolori che ha incrociato in quel giorno; pone davanti a Lui tanti volti, amici e anche ostili; non li scaccia come distrazioni pericolose. Se uno non si accorge che attorno a sé c’è tanta gente che soffre, se non si impietosisce per le lacrime dei poveri, se è assuefatto a tutto, allora significa che il suo cuore… com’è? Appassito? No, peggio: è di pietra. In questo caso è bene supplicare il Signore che ci tocchi con il suo Spirito e intenerisca il nostro cuore: “Intenerisci, Signore, il mio cuore”. È una bella preghiera: “Signore, intenerisci il mio cuore, perché possa capire e farsi carico di tutti i problemi, tutti i dolori altrui”. Il Cristo non è passato indenne accanto alle miserie del mondo: ogni volta che percepiva una solitudine, un dolore del corpo o dello spirito, provava un senso forte di compassione, come le viscere di una madre. Questo “sentire compassione” – non dimentichiamo questa parola tanto cristiana: sentire compassione – è uno dei verbi-chiave del Vangelo: è ciò che spinge il buon samaritano ad avvicinarsi all’uomo ferito sul bordo della strada, al contrario degli altri che hanno il cuore duro.
Ci possiamo chiedere: quando prego, mi apro al grido di tante persone vicine e lontane? Oppure penso alla preghiera come a una specie di anestesia, per poter stare più tranquillo? Butto lì la domanda, ognuno si risponda. In questo caso sarei vittima di un terribile equivoco. Certo, la mia non sarebbe più una preghiera cristiana. Perché quel “noi”, che Gesù ci ha insegnato, mi impedisce di stare in pace da solo, e mi fa sentire responsabile dei miei fratelli e sorelle.
Ci sono uomini che apparentemente non cercano Dio, ma Gesù ci fa pregare anche per loro, perché Dio cerca queste persone più di tutti. Gesù non è venuto per i sani, ma per i malati, per i peccatori (cfr Lc 5,31) – cioè per tutti, perché chi pensa di essere sano, in realtà non lo è. Se lavoriamo per la giustizia, non sentiamoci migliori degli altri: il Padre fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi (cfr Mt 5,45). Ama tutti il Padre! Impariamo da Dio che è sempre buono con tutti, al contrario di noi che riusciamo ad essere buoni solo con qualcuno, con qualcuno che mi piace.
Fratelli e sorelle, santi e peccatori, siamo tutti fratelli amati dallo stesso Padre. E, alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore, su come abbiamo amato. Non un amore solo sentimentale, ma compassionevole e concreto, secondo la regola evangelica – non dimenticatela! –: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così dice il Signore. Grazie.
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
“Padre” …su questa invocazione facciamo due riflessioni: in che senso Egli è Padre e quali siano i nostri doveri verso di Lui in quanto Padre.
Viene detto nostro Padre innanzitutto in ragione del modo speciale con cui ci ha creati, perché ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26): il che non fece invece con le altre creature. Così infatti la Scrittura: “É lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito” (Dt 32,6).
Viene poi detto Padre per il modo speciale con cui ci governa. Governa, è vero, anche tutti gli altri esseri, ma governa noi lasciandoci padroni di noi stessi. Gli altri, invece, li governa come schiavi. Questa cosa è bene espressa dal Libro della Sapienza: “Tutto è governato, o Padre, dalla tua Provvidenza... Tu ci tratti con grande riverenza” (Sap 14,3; 12,18).
Viene detto Padre anche per averci adottati. Se, infatti, alle altre creature egli ha fatto dei regalini, a noi invece ha dato l'eredità. E questo perché siamo suoi figli, e “se figli, siamo anche eredi” (Rm 8,17). Sicché l'Apostolo può dire: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi e di paura, ma avete ricevuto lo Spirito dei figli adottivi che ci fa esclamare ‘Abbà, Padre’” (Rm 8,15).
Da parte nostra quattro sono i doveri che derivano da questa paternità:
1. Gli dobbiamo anzitutto onore.
Dio dice per bocca di Malachia: “Se io sono il Padre, dov’è l’onore che mi spetta?” (Ml 1,6). E questo onore si deve manifestare in tre modi.
Primo, nel dare lode a Dio, come dice il salmista: “Chi offre il sacrificio di lode, questi mi onora” (Sal 50,23). Lode, però, che non deve essere solo un omaggio delle labbra ma del cuore, per non meritare il rimprovero che Dio rivolgeva al popolo ebraico: “Questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me” (Is 29,13).
Secondo, lo onoriamo in noi stessi accogliendo l'esortazione di S. Paolo: “Glorificate Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6,20).
Terzo, lo onoriamo nel prossimo col giudicarlo equamente, perché Dio è un Re potente che ama la giustizia” (Sal 99,4).
2. Inoltre dobbiamo imitarlo.
Dio dice a Geremia: “Voi mi direte: 'Padre mio', e non tralascerete di seguirmi” (Ger 3,19).
Questa imitazione si attua in tre modi:
Primo, con l'amarlo, come ci ricorda S. Paolo: “Fatevi imitatori di Dio quali figli carissimi, e camminate nella carità” (Ef 5,1). Questo amore deve essere evidentemente nel nostro cuore.
Secondo, lo dobbiamo imitare nell'esercitare la misericordia, come ci ha ordinato il Signore: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6,36).
Terzo, lo imitiamo tendendo alla perfezione, perché l'amore e la misericordia devono essere perfetti: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).
3. Dobbiamo obbedirgli.
É infatti nostro Padre. Come dice S. Paolo “Noi abbiamo avuto come correttori i nostri padri secondo la carne e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre degli spiriti, per avere la vita?” (Eb 12, 9). Questa obbedienza gli è dovuta per tre motivi.
Primo, per il dominio che ha su di noi, essendo egli il Signore di tutte le cose, per cui “quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo” (Es 24,7).Secondo, per l'esempio che il suo vero Figlio ci ha dato facendosi obbediente al Padre fino alla morte (Fil 2,8).
Terzo, per il vantaggio che ne ricaviamo, come rispose Davide a Mikal che lo disprezzava per aver ballato davanti all'Arca: “L'ho fatto dinanzi al Signore, che mi ha scelto invece di tuo padre” (2 Sam 6,21).
4. Dobbiamo essere pazienti nelle prove che ci manda.
Dice infatti il Libro dei Proverbi. “Figlio mio, non disprezzare l'istruzione del Signore e non avere a noia la sua esortazione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto” (Pr 3,11 12).
DALLA REGOLA DI VITA
art 27: La vita di pietà dell’Orionina sarà in armonia con la speciale vocazione alla consacrazione secolare, e manifesta i caratteri comunemente ritenuti segni tipici della spiritualità orionina. Questa esige una fede viva che porta ad alimentare il desiderio di intimità con Dio, di donazione totale per un impegno di carità evangelica nel mondo, fra i più poveri, ed un fedele servizio alla Chiesa.
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2780: Possiamo invocare Dio come <
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
In Te ogni nostra fiducia, o Santa Provvidenza del Signore!
O Divina Provvidenza, o Divina Provvidenza! Nulla è più amabile e adorabile di Te, che maternamente alimenti l'uccello dell'aria e il fiore del campo: i ricchi e i poverelli! Tu apri le vie di Dio e compi i grandi disegni di Dio nel mondo!
In Te ogni nostra fiducia, o Santa Provvidenza del Signore, perché tu ci ami assai più che noi amiamo noi stessi! No, che col divino aiuto, non ti voglio più indagare: no, che non ti voglio più legare le mani: no, che non ti voglio più storpiare; ma solo voglio interamente abbandonarmi nelle tue braccia, sereno e tranquillo. Fa' che Ti prenda come sci, con la semplicità del bambino, con quella fede larga che non vede confini! "Fede, fede, ma di quella... ", di quella del Beato Cottolengo, il quale trovava luce dappertutto, e vedeva Dio in tutto e per tutto! Divina Provvidenza! Divina Provvidenza!
Dà a me, povero servo e ciabattino tuo, e alle anime che pregano e lavorano in silenzio e sacrificio di vita intorno ai poverelli, dà ai cari benefattori nostri quella latitudine di cuore, di carità che non misura il bene col metro, né va con umano calcolo: la carità che è soave e dolce, che si fa tutta a tutti: che ripone la sua felicità nel poter fare ogni bene agli altri silenziosamente: la carità che edifica e unifica in Gesù Cristo, con semplicità e candore
O Santa Divina Provvidenza! Ispiratrice e madre di quella carità che è la divisa di Cristo e dei suoi discepoli: anima Tu, conforta e largamente ricompensa in terra e in cielo quanti, nel nome di Dio, fanno da padre, da madre, da fratelli, da sorelle agli infelici.
PREGHIERA FINALE
Padre, dammi il dono più bello, più grande,
più prezioso che possiedi: Gesù!
Quando sono ammalato, dammi Gesù
perché egli è la Salute.
Quando mi sento triste, dammi Gesù
perché egli è la Gioia.
Quando mi sento debole, dammi Gesù
perché egli è la forza.
Quando mi sento solo, dammi Gesù
perché egli è l’Amico.
Quando mi sento legato, dammi Gesù
perché egli è la Libertà.
Quando mi sento peccatore, dammi Gesù
perché egli è il Salvatore.
Quando ho bisogno d'amore, dammi Gesù
perché egli è l'Amore.
Quando ho bisogno di pane, dammi Gesù
perché egli è il Pane di Vita.
Quando ho bisogno di denaro, dammi Gesù
perché egli è la Ricchezza Infinita.
Padre, a qualsiasi mia richiesta rispondi con una sola parola,
la tua Parola Eterna: Gesù.
SCHEDA n° 4
La “speciale” paternità di un Dio il cui nome va santificato
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo purifica le nostre relazioni
spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro.
Spirito Santo conduci noi tutti, “mendicanti d’amore”,
alla fonte dell’Amore vero.
Spirito Santo ricordaci, in ogni circostanza di vita,
che il nostro nome è inciso sul palmo di Dio,
che la nostra vita “sta meglio nelle Sue mani piuttosto che nelle nostre”
e che il suo progetto di bene, per noi, non si arresterà mai.
Spirito Santo insegnaci ad appoggiare la nostra vita sulla fedeltà di Dio,
perché di per noi non siamo affidabili per nulla. Amen
.
Dal libro dei salmi (Salmo 138)
Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
mi scruti quando cammino e quando riposo.
Ti sono note tutte le mie vie;
la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.
Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.
Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo negli inferi, eccoti.
Se prendo le ali dell'aurora
per abitare all'estremità del mare,
anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.
Se dico: «Almeno l'oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte»;
nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.
Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.
Non ti erano nascoste le mie ossa
quando venivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.
Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 20 Febbraio 2019
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato – un’ipotesi storica –, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16). Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 27 Febbraio 2019
Sembra che l’inverno se ne stia andando e perciò siamo ritornati in Piazza. Benvenuti in piazza! Nel nostro percorso di riscoperta della preghiera del “Padre nostro”, oggi approfondiremo la prima delle sue sette invocazioni, cioè «sia santificato il tuo nome».
Le domande del “Padre nostro” sono sette, facilmente divisibili in due sottogruppi. Le prime tre hanno al centro il “Tu” di Dio Padre; le altre quattro hanno al centro il “noi” e le nostre necessità umane. Nella prima parte Gesù ci fa entrare nei suoi desideri, tutti rivolti al Padre: «sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà»; nella seconda è Lui che entra in noi e si fa interprete dei nostri bisogni: il pane quotidiano, il perdono dei peccati, l’aiuto nella tentazione e la liberazione dal male.
Qui sta la matrice di ogni preghiera cristiana – direi di ogni preghiera umana –, che è sempre fatta, da una parte, di contemplazione di Dio, del suo mistero, della sua bellezza e bontà, e, dall’altra, di sincera e coraggiosa richiesta di quello che ci serve per vivere, e vivere bene. Così, nella sua semplicità e nella sua essenzialità, il “Padre nostro” educa chi lo prega a non moltiplicare parole vane, perché – come Gesù stesso dice – «il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,8).
Quando parliamo con Dio, non lo facciamo per rivelare a Lui quello che abbiamo nel cuore: Lui lo conosce molto meglio di noi! Se Dio è un mistero per noi, noi invece non siamo un enigma ai suoi occhi (cfr Sal 139,1-4). Dio è come quelle mamme a cui basta uno sguardo per capire tutto dei figli: se sono contenti o tristi, se sono sinceri o nascondono qualcosa…
Il primo passo della preghiera cristiana è dunque la consegna di noi stessi a Dio, alla sua provvidenza. È come dire: “Signore, Tu sai tutto, non c’è nemmeno bisogno che ti racconti il mio dolore, ti chiedo solo che tu stia qui accanto a me: sei Tu la mia speranza”. È interessante notare che Gesù, nel discorso della montagna, subito dopo aver trasmesso il testo del “Padre nostro”, ci esorta a non preoccuparci e non affannarci per le cose. Sembra una contraddizione: prima ci insegna a chiedere il pane quotidiano e poi ci dice: «Non preoccupatevi dunque dicendo: che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?» (Mt 6,31). Ma la contraddizione è solo apparente: le domande del cristiano esprimono la confidenza nel Padre; ed è proprio questa fiducia che ci fa chiedere ciò di cui abbiamo bisogno senza affanno e agitazione.
È per questo che preghiamo dicendo: “Sia santificato il tuo nome!”. In questa domanda – la prima! “Sia santificato il tuo nome!” – si sente tutta l’ammirazione di Gesù per la bellezza e la grandezza del Padre, e il desiderio che tutti lo riconoscano e lo amino per quello che veramente è. E nello stesso tempo c’è la supplica che il suo nome sia santificato in noi, nella nostra famiglia, nella nostra comunità, nel mondo intero. È Dio che santifica, che ci trasforma con il suo amore, ma nello stesso tempo siamo anche noi che, con la nostra testimonianza, manifestiamo la santità di Dio nel mondo, rendendo presente il suo nome. Dio è santo, ma se noi, se la nostra vita non è santa, c’è una grande incoerenza! La santità di Dio deve rispecchiarsi nelle nostre azioni, nella nostra vita. “Io sono cristiano, Dio è santo, ma io faccio tante cose brutte”, no, questo non serve. Questo fa anche male; questo scandalizza e non aiuta.
La santità di Dio è una forza in espansione, e noi supplichiamo perché frantumi in fretta le barriere del nostro mondo. Quando Gesù incomincia a predicare, il primo a pagarne le conseguenze è proprio il male che affligge il mondo. Gli spiriti maligni imprecano: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» (Mc 1,24). Non si era mai vista una santità così: non preoccupata di sé stessa, ma protesa verso l’esterno. Una santità – quella di Gesù - che si allarga a cerchi concentrici, come quando si getta un sasso in uno stagno. Il male ha i giorni contati – il male non è eterno –, il male non può più nuocerci: è arrivato l’uomo forte che prende possesso della sua casa (cfr Mc 3,23-27). E questo uomo forte è Gesù, che dà anche a noi la forza per prendere possesso della nostra casa interiore.
La preghiera scaccia ogni timore. Il Padre ci ama, il Figlio alza le braccia affiancandole alle nostre, lo Spirito lavora in segreto per la redenzione del mondo. E noi? Noi non vacilliamo nell’incertezza. Ma abbiamo una grande certezza: Dio mi ama; Gesù ha dato la vita per me! Lo Spirito è dentro di me. È questa la grande cosa certa. E il male? Ha paura. E questo è bello.
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
“Padre, sia santificato il tuo Nome”: è questa la prima domanda della preghiera insegnataci dal Signore, con la quale chiediamo che il nome di Dio si manifesti e risplenda in noi.
Ora, il nome di Dio è meraviglioso (ammirabile): perché opera meraviglie in tutte le creature. Dice infatti Gesù nel Vangelo parlando dei futuri credenti: “Nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati, e questi guariranno” (Mc 16,17).
Il nome di Dio è amabile: perché “non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). E la salvezza tutti dobbiamo amarla.
Abbiamo in proposito l’esempio del Santo vescovo Ignazio, il quale amò tanto il nome di Cristo che, quando Traiano gli chiese di rinnegarlo, rispose: “Non riuscirai a togliermelo dalla bocca”.
E quando minacciò di tagliargli la testa per levarglielo dalla bocca, egli rispose: “Anche se tu me lo togliessi dalla bocca, non potrai togliermelo dal cuore”. Allora Traiano gli volle tagliare la testa e comandò che gli fosse estratto il cuore: e fu trovato che recava il nome di Cristo a caratteri d’oro. Il martire l’aveva messo sul proprio cuore come un sigillo (Ct 8,6).
Il nome di Dio è venerabile.
Dice San Paolo: “Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni alto nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,9-10).
Gli esseri dei cieli sono gli Angeli e i beati, e si inginocchiano per amore.
Gli esseri della terra sono coloro che vivono in questo mondo e lo fanno per il desiderio di conquistare la gloria e per fuggire la pena.
Gli esseri che stanno sotto terra sono i dannati, che lo fanno per paura (Fil 2, 9 10).
Il nome di Dio è ineffabile: perché ogni lingua è incapace di esprimerlo. Per questo la Scrittura a volte ricorre a metafore prese dalle creature. Così nel Vangelo per la sua fermezza viene detto “pietra”, come nella frase: “su questa Pietra edificherò la mia Chiesa” (Mt 16,18). Oppure per la sua virtù purificatrice viene detto “fuoco”, perché, come il fuoco purifica i metalli, così Dio purifica i cuori dei peccatori: “Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore” (Dt 4, 24). E per la sua virtù di illuminare viene detto “luce”, perché, come la luce illumina le tenebre materiali, così Dio illumina quelle della mente. Per questo il salmista diceva: “Tu, Signore, sei luce alla mia lampada; il mio Dio rischiara le mie tenebre” (Sal 18,29).
Per tutte queste ragioni chiediamo che questo santo nome sia a tutti manifestato e da tutti sia riconosciuto e tenuto per santo.
DALLA REGOLA DI VITA
art. 9: La consacrazione deve essere la consapevole, libera e gioiosa risposta alla vocazione, insigne dono di Dio. Per mezzo di essa partecipa più intimamente al dono totale di Cristo al Padre, sempre in atto nella Chiesa e per la Chiesa. In tal modo, essa viene maggiormente introdotta nella comunione di vita con la Santissima Trinità. Inserita più profondamente nel mistero pasquale, può raccogliere più copiosi i frutti della grazia battesimale.
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2796: Quando la Chiesa prega “Padre nostro che sei nei cieli”, professa che siamo il Popolo di Dio, già “fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6) nascosti “con Cristo in Dio” (Col 3,3), mentre, al tempo stesso, “sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste” (2 Cor 5,2).
I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo. (Lettera a Diogneto)
n. 2813: Nell’acqua del Battesimo siamo stati “lavati… santificati … giustificati nel Nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Cor 6, 11) Lungo tutta la nostra vita il Padre nostro ci chiama “alla santificazione” (1 Ts 4,7), e, poiché è per Lui che noi siamo “in Cristo Gesù, il quale … è diventato per noi santificazione” (1Cor 1,30), ne va della sua Gloria e della nostra vita che il suo Nome sia santificato in noi e da noi. Sta qui l’urgenza della nostra prima domanda.
Chi potrebbe santificare Dio, giacché è Lui che santifica? Ma traendo ispirazione da queste parole: “Sarete santi… poiché io, il Signore, sono santo” (Lv 20,26), noi chiediamo che, santificati dal Battesimo, possiamo perseverare in ciò che abbiamo incominciato ad essere. E lo chiediamo ogni giorno, perché ogni giorno ci lasciamo sedurre dal male, e perciò dobbiamo purificarci dai nostri peccati con una purificazione incessantemente ricominciata … Ricorriamo, dunque, alla preghiera perché la santità dimori in noi. (San Cipriano di Cartagine – De oratione dominica)
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
L’uomo tanto vale quanto prega. Del nostro lavoro tanto resta quanto è cementato dalla orazione.
– Alcune volte diceva: Non ti scandalizzare se mi vedi raramente andare in Cappella a pregare…lo vedi quanto lavoro ho! Sai, ci mando spesso il mio Angelo Custode a salutare Gesù.
– E’ nel mattino, prima di qualsivoglia distrazione e comunicazione con gli uomini, che bisogna pregare e ascoltare Dio. La prima ora tutta a Dio! Allora Iddio parla, Iddio ara le anime, Iddio lavora in noi, Iddio plasma il nostro spirito: iddio vivifica, Iddio rischiara, e lo splendore di Dio sta sopra di noi; nella meditazione sentiamo il tocco di Dio.
– L’immagine del Divino Maestro, il quale, in mezzo alla predicazione si ritira sul monte a pregare e meditare, sia la nostra immagine prediletta. Ricordiamoci, o fratelli, che pur nel lavoro della vita attiva non cessa per noi l’obbligo dell’orazione. E’ l’orazione che ci eleva a Dio, ci fa parlare con Dio, ci unisce a Dio, ci santifica in Dio. L’ottima parte è l’unica cosa necessaria: il dovere di pregare.
– Vogliamo essere bollenti di fede e carità. Ogni nostra parola dev’essere un soffio di cieli aperti: tutti vi devono sentire la fiamma che arde il nostro cuore e la luce del nostro incendio interiore, trovarvi Dio e Cristo. Per conquistare a Dio e afferrare gli altri occorre prima vivere una vita intensa di Dio in noi stessi, avere dentro di noi una fede dominante, un ideale grande che ci arda e risplenda…
– Segno di avere spirito di orazione è avere il cuore affocato e infiammato d’amore a Dio e del prossimo. Avere i pensieri sempre e generalmente rivolti e tendenti alle cose buone, celesti e zelare la gloria di Dio.
– La carità comanda di non appartarci in una comoda bastevolezza, ma di sentire e avere compassione fattiva per i dolori e i bisogni degli altri, dai quali non dobbiamo riguardarci separati, mentre sono una sola cosa con noi in Cristo.
– Senza ascolto e dialogo con la Parola di Dio, senza dipendenza dalla Volontà di Dio finiamo per vivere in un protagonismo religioso egocentrico che è la morte della vita spirituale e della vita comunitaria.
PREGHIERA FINALE
Dio sia benedetto.
Benedetto il suo Santo Nome.
Benedetto Gesù Cristo vero Dio e vero uomo.
Benedetto il Nome di Gesù.
Benedetto il Suo Sacratissimo Cuore.
Benedetto il suo Preziosissimo Sangue.
Benedetto Gesù nel Santissimo Sacramento dell’altare.
Benedetto lo Spirito Santo Paraclito.
Benedetta la gran Madre di Dio Maria Santissima.
Benedetta la sua Santa ed Immacolata Concezione.
Benedetta la sua gloriosa Assunzione.
Benedetto il Nome di Maria Vergine Madre.
Benedetto San Giuseppe suo castissimo Sposo.
Benedetto Dio nei suoi Angeli e nei suoi Santi. Amen
SCHEDA n° 5
La signoria di Dio si fa vicina ai suoi figli
e rivela un progetto di salvezza per ogni uomo
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo rendici consapevoli che abbiamo un solo vero bisogno,
abbiamo bisogno di Dio.
Spirito Santo rendici consapevoli che Dio ci precede sempre
e che ci sorprende sempre.
Spirito Santo insegnaci a scorgere il Regno di Dio che avanza,
con la stessa forza feconda del seme,
anche in mezzo ai nostri peccati e ai nostri fallimenti.
Spirito Santo aiutaci a condividere l’invocazione “Padre venga il tuo Regno”
con coloro che hanno assaporato più l’odio che l’amore,
con chi ha avuto la sensazione di aver vissuto inutilmente,
con tutti i martiri della storia.
Spirito Santo rinnovaci nella certezza che non è il male ad avere l’ultima parola
e che è Cristo che avanza, che vince e che trionfa nella Misericordia. Amen
Dal vangelo secondo Matteo (Mt 11,1-5)
Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città. Giovanni intanto, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, mandò a dirgli per mezzo dei suoi discepoli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?». Gesù rispose: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: I ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 06 Marzo 2019
Quando preghiamo il “Padre nostro”, la seconda invocazione con cui ci rivolgiamo a Dio è «venga il tuo Regno» (Mt 6,10). Dopo aver pregato perché il suo nome sia santificato, il credente esprime il desiderio che si affretti la venuta del suo Regno. Questo desiderio è sgorgato, per così dire, dal cuore stesso di Cristo, che iniziò la sua predicazione in Galilea proclamando: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Queste parole non sono affatto una minaccia, al contrario, sono un lieto annuncio, un messaggio di gioia.
Gesù non vuole spingere la gente a convertirsi seminando la paura del giudizio incombente di Dio o il senso di colpa per il male commesso. Gesù non fa proselitismo: annuncia, semplicemente. Al contrario, quella che Lui porta è la Buona Notizia della salvezza, e a partire da essa chiama a convertirsi. Ognuno è invitato a credere nel “vangelo”: la signoria di Dio si è fatta vicina ai suoi figli. Questo è il Vangelo: la signoria di Dio si è fatta vicina ai suoi figli. E Gesù annuncia questa cosa meravigliosa, questa grazia: Dio, il Padre, ci ama, ci è vicino e ci insegna a camminare sulla strada della santità.
I segni della venuta di questo Regno sono molteplici e tutti positivi. Gesù inizia il suo ministero prendendosi cura degli ammalati, sia nel corpo che nello spirito, di coloro che vivevano una esclusione sociale – per esempio i lebbrosi –, dei peccatori guardati con disprezzo da tutti, anche da coloro che erano più peccatori di loro ma facevano finta di essere giusti. E Gesù questi come li chiama? “Ipocriti”. Gesù stesso indica questi segni, i segni del Regno di Dio: «I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5).
“Venga il tuo Regno!”, ripete con insistenza il cristiano quando prega il “Padre nostro”. Gesù è venuto; però il mondo è ancora segnato dal peccato, popolato da tanta gente che soffre, da persone che non si riconciliano e non perdonano, da guerre e da tante forme di sfruttamento, pensiamo alla tratta dei bambini, per esempio. Tutti questi fatti sono la prova che la vittoria di Cristo non si è ancora completamente attuata: tanti uomini e donne vivono ancora con il cuore chiuso.
È soprattutto in queste situazioni che sulle labbra del cristiano affiora la seconda invocazione del “Padre nostro”: “Venga il tuo regno!”. Che è come dire: “Padre, abbiamo bisogno di Te! Gesù, abbiamo bisogno di te, abbiamo bisogno che ovunque e per sempre Tu sia Signore in mezzo a noi!”. “Venga il tuo regno, sii tu in mezzo a noi”.
A volte ci domandiamo: come mai questo Regno si realizza così lentamente? Gesù ama parlare della sua vittoria con il linguaggio delle parabole. Ad esempio, dice che il Regno di Dio è simile a un campo dove crescono insieme il buon grano e la zizzania: il peggior errore sarebbe di voler intervenire subito estirpando dal mondo quelle che ci sembrano erbe infestanti. Dio non è come noi, Dio ha pazienza. Non è con la violenza che si instaura il Regno nel mondo: il suo stile di propagazione è la mitezza (cfr Mt 13,24-30).
Il Regno di Dio è certamente una grande forza, la più grande che ci sia, ma non secondo i criteri del mondo; per questo sembra non avere mai la maggioranza assoluta. È come il lievito che si impasta nella farina: apparentemente scompare, eppure è proprio esso che fa fermentare la massa (cfr Mt 13,33). Oppure è come un granello di senape, così piccolo, quasi invisibile, che però porta in sé la dirompente forza della natura, e una volta cresciuto diventa il più grande di tutti gli alberi dell’orto (cfr Mt 13,31-32).
In questo “destino” del Regno di Dio si può intuire la trama della vita di Gesù: anche Lui è stato per i suoi contemporanei un segno esile, un evento pressoché sconosciuto agli storici ufficiali del tempo. Un «chicco di grano» si è definito Lui stesso, che muore nella terra ma solo così può dare «molto frutto» (cfr Gv 12,24). Il simbolo del seme è eloquente: un giorno il contadino lo affonda nella terra (un gesto che sembra una sepoltura), e poi, «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,27). Un seme che germoglia è più opera di Dio che dell’uomo che l’ha seminato (cfr Mc 4,27). Dio ci precede sempre, Dio sorprende sempre. Grazie a Lui dopo la notte del Venerdì santo c’è un’alba di Risurrezione capace di illuminare di speranza il mondo intero.
“Venga il tuo Regno!”. Seminiamo questa parola in mezzo ai nostri peccati e ai nostri fallimenti. Regaliamola alle persone sconfitte e piegate dalla vita, a chi ha assaporato più odio che amore, a chi ha vissuto giorni inutili senza mai capire il perché. Doniamola a coloro che hanno lottato per la giustizia, a tutti i martiri della storia, a chi ha concluso di aver combattuto per niente e che in questo mondo domina sempre il male. Sentiremo allora la preghiera del “Padre nostro” rispondere.
Ripeterà per l’ennesima volta quelle parole di speranza, le stesse che lo Spirito ha posto a sigillo di tutte le Sacre Scritture: “Sì, vengo presto!”: questa è la risposta del Signore. “Vengo presto”. Amen. E la Chiesa del Signore risponde: “Vieni, Signore Gesù” (cfr Ap 2,20). “Venga il tuo regno” è come dire “Vieni, Signore Gesù”. E Gesù dice: “Vengo presto”. E Gesù viene, a suo modo, ma tutti i giorni. Abbiamo fiducia in questo. E quando preghiamo il “Padre nostro” diciamo sempre: “Venga il tuo regno”, per sentire nel cuore: “Sì, sì, vengo, e vengo presto”. Grazie!
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 20 Marzo 2019
Proseguendo le nostre catechesi sul “Padre nostro”, oggi ci soffermiamo sulla terza invocazione: «Sia fatta la tua volontà». Essa va letta in unità con le prime due – «sia santificato il tuo nome» e «venga il tuo Regno» – così che l’insieme formi un trittico: «sia santificato il tuo nome», «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà». Oggi parleremo della terza.
Prima della cura del mondo da parte dell’uomo, vi è la cura instancabile che Dio usa nei confronti dell’uomo e del mondo. Tutto il Vangelo riflette questa inversione di prospettiva. Il peccatore Zaccheo sale su un albero perché vuole vedere Gesù, ma non sa che, molto prima, Dio si era messo in cerca di lui. Gesù, quando arriva, gli dice: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». E alla fine dichiara: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,5.10). Ecco la volontà di Dio, quella che noi preghiamo che sia fatta. Qual’è la volontà di Dio incarnata in Gesù? Cercare e salvare quello che è perduto. E noi, nella preghiera, chiediamo che la ricerca di Dio vada a buon fine, che il suo disegno universale di salvezza si compia, primo, in ognuno di noi e poi in tutto il mondo. Avete pensato che cosa significa che Dio sia alla ricerca di me? Ognuno di noi può dire: “Ma, Dio mi cerca?” - “Sì! Cerca te! Cerca me”: cerca ognuno, personalmente. Ma è grande Dio! Quanto amore c’è dietro tutto questo.
Dio non è ambiguo, non si nasconde dietro ad enigmi, non ha pianificato l’avvenire del mondo in maniera indecifrabile. No, Lui è chiaro. Se non comprendiamo questo, rischiamo di non capire il senso della terza espressione del “Padre nostro”. Infatti, la Bibbia è piena di espressioni che ci raccontano la volontà positiva di Dio nei confronti del mondo. E nel Catechismo della Chiesa Cattolica troviamo una raccolta di citazioni che testimoniano questa fedele e paziente volontà divina (cfr nn. 2821-2827). E San Paolo, nella Prima Lettera a Timoteo, scrive: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (2,4). Questa, senza ombra di dubbio, è la volontà di Dio: la salvezza dell’uomo, degli uomini, di ognuno di noi. Dio con il suo amore bussa alla porta del nostro cuore. Perché? Per attirarci; per attirarci a Lui e portarci avanti nel cammino della salvezza. Dio è vicino ad ognuno di noi con il suo amore, per portarci per mano alla salvezza. Quanto amore c’è dietro di questo!
Quindi, pregando “sia fatta la tua volontà”, non siamo invitati a piegare servilmente la testa, come se fossimo schiavi. No! Dio ci vuole liberi; è l’amore di Lui che ci libera. Il “Padre nostro”, infatti, è la preghiera dei figli, non degli schiavi; ma dei figli che conoscono il cuore del loro padre e sono certi del suo disegno di amore. Guai a noi se, pronunciando queste parole, alzassimo le spalle in segno di resa davanti a un destino che ci ripugna e che non riusciamo a cambiare. Al contrario, è una preghiera piena di ardente fiducia in Dio che vuole per noi il bene, la vita, la salvezza. Una preghiera coraggiosa, anche combattiva, perché nel mondo ci sono tante, troppe realtà che non sono secondo il piano di Dio. Tutti le conosciamo. Parafrasando il profeta Isaia, potremmo dire: “Qui, Padre, c’è la guerra, la prevaricazione, lo sfruttamento; ma sappiamo che Tu vuoi il nostro bene, perciò ti supplichiamo: sia fatta la tua volontà! Signore, sovverti i piani del mondo, trasforma le spade in aratri e le lance in falci; che nessuno si eserciti più nell’arte della guerra!” (cfr 2,4). Dio vuole la pace.
Il “Padre nostro” è una preghiera che accende in noi lo stesso amore di Gesù per la volontà del Padre, una fiamma che spinge a trasformare il mondo con l’amore. Il cristiano non crede in un “fato” ineluttabile. Non c’è nulla di aleatorio nella fede dei cristiani: c’è invece una salvezza che attende di manifestarsi nella vita di ogni uomo e donna e di compiersi nell’eternità. Se preghiamo è perché crediamo che Dio può e vuole trasformare la realtà vincendo il male con il bene. A questo Dio ha senso obbedire e abbandonarsi anche nell’ora della prova più dura.
Così è stato per Gesù nel giardino del Getsemani, quando ha sperimentato l’angoscia e ha pregato: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). Gesù è schiacciato dal male del mondo, ma si abbandona fiducioso all’oceano dell’amore della volontà del Padre. Anche i martiri, nella loro prova, non ricercavano la morte, ricercavano il dopo morte, la risurrezione. Dio, per amore, può portarci a camminare su sentieri difficili, a sperimentare ferite e spine dolorose, ma non ci abbandonerà mai. Sempre sarà con noi, accanto a noi, dentro di noi. Per un credente questa, più che una speranza, è una certezza. Dio è con me. La stessa che ritroviamo in quella parabola del Vangelo di Luca dedicata alla necessità di pregare sempre. Dice Gesù: «Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente» (18,7-8). Così è il Signore, così ci ama, così ci vuole bene. Ma, io ho voglia di invitarvi, adesso, tutti insieme a pregare il Padre Nostro. E coloro di voi che non sanno l’italiano, lo preghino nella lingua propria. Preghiamo insieme.
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
“Venga il tuo Regno”
Lo Spirito Santo ci insegna ad amare, desiderare e chiedere rettamente. E in questo modo produce in noi il dono del Timore, dal quale siamo spinti a chiedere che il nome di Dio sia santificato.
Egli produce anche un secondo dono, ed è quello della Pietà, la quale propriamente è un dolce e devoto affetto verso il padre e verso qualsiasi persona che soffre. Dio è nostro Padre, e verso di lui non dobbiamo avere soltanto rispetto e timore, ma anche un dolce e pio affetto.
E questo affetto ci spinge a chiedere che venga il regno di Dio vivendo “con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio” (Tt 2,12-13).
(…) . Talvolta in questo mondo a regnare è il peccato. E questo succede quando l’uomo è disposto a seguire e ad assecondare pienamente l’inclinazione al peccato, mentre S. Paolo ammonisce: “Non regni il peccato nel vostro corpo mortale, sì da sottomettervi ai suoi desideri” (Rm 6,12).
Dio invece deve regnare nel tuo cuore, come dice Isaia: “Sion, regnerà il tuo Dio” (Is 52,7). E questo avviene quando l’uomo è pronto ad obbedire a Dio e ad osservare i suoi comandamenti.
Quando preghiamo che venga il Regno di Dio, noi chiediamo che non regni in noi il peccato, ma Dio.
Questa richiesta ci fa giungere alla beatitudine menzionata da Matteo 5,4: “Beati i miti”.
Infatti, dal momento che l’uomo desidera che Dio sia Signore di tutti, non si vendica da sé delle offese ricevute ma riserva tutto ciò a Dio.
Se infatti ti vendicassi, non chiederesti che venga il Regno di Dio.
Inoltre se tu aspetti il Regno di Dio, cioè la gloria del Paradiso, non devi preoccuparti della perdita delle cose del mondo.
E infine se tu chiedi che in te regni Dio e regni Cristo, dal momento che Cristo è stato mitissimo, anche tu devi essere mite: “Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11,29). E “avete accettato con gioia di essere spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi” (Eb 10,34).
“Sia fatta la tua volontà come in cielo, così in terra”
Il terzo Dono prodotto in noi dallo Spirito Santo è il Dono della Scienza.
Lo Spirito Santo, infatti, non solo produce in noi il Dono del Timore e della Pietà, la quale, come si è detto, è un dolce affetto verso Dio, ma fa sì che l’uomo diventi anche sapiente. Questo chiedeva Davide quando diceva: “Insegnami il senno e la saggezza, perché ho fiducia nei tuoi comandamenti” (Sal 119,66). E questa è la Scienza insegnataci dallo Spirito Santo per la quale l’uomo vive bene.
Ora tra i vari insegnamenti che riguardano la scienza e la sapienza dell’uomo, il più alto è quello che insegna a non confidare nel proprio giudizio, come dice il Libro dei Proverbi: “Non appoggiarti sulla tua intelligenza” (Pr 3,5).
Infatti quelli che presumono nel proprio giudizio al punto da non credere agli altri, ma solo a se stessi, sono sempre trovati e giudicati stolti. Si legge nei Proverbi: “Hai visto un uomo che si crede saggio? È meglio sperare in uno stolto che in lui” (Pr 26,12).
È proprio dell’umiltà che l’uomo poi non creda solamente al proprio giudizio: questa infatti ha la sua radice nella sapienza, come si legge in Pr 11,2: “i superbi confidano troppo in se stessi”. Questo ce lo insegna lo Spirito Santo col Dono della Scienza, affinché non facciamo la nostra volontà ma quella di Dio. E in forza di questo Dono chiediamo a Dio che si faccia la sua volontà come in cielo così in terra.
In questo si manifesta il Dono della Scienza: perché quando chiediamo a Dio che si faccia la sua volontà, noi ci mettiamo press’a poco nell’atteggiamento di un malato che per guarire chiede al medico qualcosa. E non chiede specificando che cosa vuole, ma si rimette alla sua volontà. Diversamente se facesse solo di sua testa, sarebbe uno stolto. Così anche noi dobbiamo chiedere a Dio nient’altro al di fuori del compimento della sua volontà, e cioè che la sua volontà si compia in noi. Solo allora infatti il cuore dell’uomo è retto: quando concorda con la volontà divina. Così ha fatto Cristo: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 6,38). Cristo infatti, in quanto è Dio, ha la medesima volontà del Padre. Ma, in quanto uomo, ha una volontà distinta da quella del Padre. E secondo questa volontà dice di non fare la volontà propria ma quella del Padre. E perciò ci insegna a pregare e a chiedere: “Sia fatta la tua volontà”.
DALLA REGOLA DI VITA
art. 20: Con l’obbedienza l’Orionina fa sua, ad imitazione di Gesù, la volontà di Dio, ma nello stesso tempo gli offre, in sacrificio totale di se stessa, la propria volontà, sicura che fare la volontà di Dio è penetrare nell’amore di Dio, giacché in Dio volontà e amore sono un’unica cosa (cfr. Mt 12,50).
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2818: Nella preghiera del Signore si tratta principalmente della venuta finale del Regno di Dio con il ritorno di Cristo. Questo desiderio non distoglie però la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi, la impegna maggiormente. Infatti, dopo la Pentecoste, la venuta del Regno è l’opera dello Spirito del Signore, inviato “a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione”.
n. 2822: La Volontà del Padre nostro è “che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4). Egli “usa pazienza… non volendo che alcuno perisca” (2Pt 3,9). Il suo comandamento, che compendia tutti gli altri e ci manifesta la sua Volontà, è che ci amiamo gli uni gli altri, come egli ci ha amato.
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
Una piccola parola illumina il cammino
Fiat! E’ una piccola parola, dolce ricovero innalzato dal buon Dio in mezzo a questo deserto così arido e difficile da attraversare, che si chiama la vita.
Fiat! Esprime l'atto del fanciullo che si getta con amore sul seno del padre finché passa l'uragano: l'atto del povero abbandonato che, dopo lunghi anni di vita triste e solitaria, ritrova la sua madre; l'atto dell'esiliato che, ricondotto sotto il tetto della sua infanzia, e rivedendo commosso tutto ciò che egli ha amato, non sa altro ripetere che: lo qui voglio morire!
Fiat! Pronunciatela questa parola, cuori spezzati dalla sofferenza e dalla lotta, o straziati dalla sofferenza dei vostri più cari, e sarà per voi un balsamo che vi guarirà.
Fiat! Pronunciate questa parola, cuori rattristati dalla solitudine, scoraggiati per l'abbandono, e sarà per voi l'amico che consola, l'appoggio che sostiene!
Fiat! Pronunciate questa parola, cuori timidi, che siete incerti sulla strada da scegliere e non sapete a chi indirizzarvi, e per voi sarà la luce che vi mostrerà il cammino.
Fiat! Pronunciate questa parola, o voi che volete allontanare da coloro che amate il timore che li agita od il male che li minaccia, ed essa li ospiterà sotto le sue ali, e l'uragano passerà senza toccarli.
Fiat! Pronunciatela questa soave parola, o figli e amici miei, pronunciatela ad ogni respiro, ad ogni battito del cuore, ad ogni movimento delle labbra. Dio la comprenderà sempre nel modo in cui volete ch'egli la comprenda, ora come preghiera, ora come atto di fede, nel dubbio, come atto di speranza nel timore, e sempre come atto di amore.
Fiat! Questa parola non si può dire che a Voi, o mio Dio, perché a Voi solo possiamo pienamente confidarci, dedicarci, abbandonarci, interamente.
Fiat! Nelle vostre mani dunque, nelle vostre mani, o mio Dio!
Fiat! Fiat! In questi giorni di mortale tristezza, io ve la grido dal fondo dell'anima desolata, m'inabisso in questa parola suprema con tutto ciò che più amo: Fiat! Fiat!
Lavorate, lavorate questo fango, o mio Dio, dategli una forma e poi spezzatela ancora: essa è vostra e di chi fa per Voi, e non avrà mai più nulla a ridire. O quanti sforzi, o Signore, per arrivare sino a questo punto! Quanto di umano si è dovuto abbattere e calpestare! Ora vi ringrazio dal profondo del cuore!
Fiat! Fiat! Sofferente, innalzato, abbassato, utile a qualche cosa od inutile a tutti, io vi adorerò sempre e sarò sempre vostro, o mio Dio! Nessuno mi staccherà da Voi!
Nelle gioie e nei dolori sarò sempre tuo, o dolcissimo mio amore Gesù.
Solitario ed ignorato, come il fiore del deserto, errante come l'uccello senza nido, sempre, sempre, Signore e Amore soavissimo dell'anima mia, uscirà dalle mie labbra la parola sottomessa di quella che mi hai dato per Madre: Fiat! Fiat!
Sia fatto di me secondo la tua parola!
PREGHIERA FINALE
Signore Gesù, donaci forza,
passione e determinazione
per seguirti alle tue condizioni.
Donaci trasparenza interiore
per non cadere nella tentazione
di seguirti dettando noi i tempi
e misurando il dono.
Signore, possa la nostra risposta
essere un SI’ senza “ma” e senza “se”,
perché né la morte né la vita
possano impedirci di seguire la tua voce, di vivere come te,
annunciando con gioia il Regno di Dio. Amen
SCHEDA n° 6
Non siamo autosufficienti perciò esponiamo a Dio le nostre necessità
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo rendici consapevoli che non siamo creature autosufficienti
e ricordaci che tutto quello che abbiamo ricevuto è un dono
che siamo chiamati a restituire in termini di accoglienza e condivisione.
Spirito Santo liberaci dalla tentazione delle invocazioni “raffinate”
e fa’ di tutta la nostra esistenza, con i suoi problemi più concreti e quotidiani,
una preghiera incessante che sale a Dio.
Spirito Santo insegnaci a presentare le nostre necessità a Dio “prendendoci per mano”: Gesù infatti non ci ha autorizzati a chiedere solo per noi
ma per l’intera fraternità del mondo.
Spirito Santo insegnaci a sentire nella nostra fame la fame delle moltitudini:
e a chiedere per noi e per tutti pane, pace, amore, speranza…. Amen
Dal vangelo secondo Giovanni (Gv 6,5- 13)
Alzati quindi gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C'era molta erba in quel luogo. Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, finché ne vollero. E quando furono saziati, disse ai discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 27 Marzo 2019
Passiamo oggi ad analizzare la seconda parte del “Padre nostro”, quella in cui presentiamo a Dio le nostre necessità. Questa seconda parte comincia con una parola che profuma di quotidiano: il pane.
La preghiera di Gesù parte da una domanda impellente, che molto somiglia all’implorazione di un mendicante: “Dacci il pane quotidiano!”. Questa preghiera proviene da un’evidenza che spesso dimentichiamo, vale a dire che non siamo creature autosufficienti, e che tutti i giorni abbiamo bisogno di nutrirci.
Le Scritture ci mostrano che per tanta gente l’incontro con Gesù si è realizzato a partire da una domanda. Gesù non chiede invocazioni raffinate, anzi, tutta l’esistenza umana, con i suoi problemi più concreti e quotidiani, può diventare preghiera. Nei Vangeli troviamo una moltitudine di mendicanti che supplicano liberazione e salvezza. Chi domanda il pane, chi la guarigione; alcuni la purificazione, altri la vista; o che una persona cara possa rivivere... Gesù non passa mai indifferente accanto a queste richieste e a questi dolori.
Dunque, Gesù ci insegna a chiedere al Padre il pane quotidiano. E ci insegna a farlo uniti a tanti uomini e donne per i quali questa preghiera è un grido – spesso tenuto dentro – che accompagna l’ansia di ogni giorno. Quante madri e quanti padri, ancora oggi, vanno a dormire col tormento di non avere l’indomani pane a sufficienza per i propri figli! Immaginiamo questa preghiera recitata non nella sicurezza di un comodo appartamento, ma nella precarietà di una stanza in cui ci si adatta, dove manca il necessario per vivere. Le parole di Gesù assumono una forza nuova. L’orazione cristiana comincia da questo livello. Non è un esercizio per asceti; parte dalla realtà, dal cuore e dalla carne di persone che vivono nel bisogno, o che condividono la condizione di chi non ha il necessario per vivere. Nemmeno i più alti mistici cristiani possono prescindere dalla semplicità di questa domanda. “Padre, fa’ che per noi e per tutti, oggi ci sia il pane necessario”. E “pane” sta anche per acqua, medicine, casa, lavoro… Chiedere il necessario per vivere.
Il pane che il cristiano chiede nella preghiera non è il “mio” ma è il “nostro” pane. Così vuole Gesù. Ci insegna a chiederlo non solo per sé stessi, ma per l’intera fraternità del mondo. Se non si prega in questo modo, il “Padre nostro” cessa di essere una orazione cristiana. Se Dio è nostro Padre, come possiamo presentarci a Lui senza prenderci per mano? Tutti noi. E se il pane che Lui ci dà ce lo rubiamo tra di noi, come possiamo dirci suoi figli? Questa preghiera contiene un atteggiamento di empatia, un atteggiamento di solidarietà. Nella mia fame sento la fame delle moltitudini, e allora pregherò Dio finché la loro richiesta non sarà esaudita. Così Gesù educa la sua comunità, la sua Chiesa, a portare a Dio le necessità di tutti: “Siamo tutti tuoi figli, o Padre, abbi pietà di noi!”. E adesso ci farà bene fermarci un po’ e pensare ai bambini affamati. Pensiamo ai bambini che sono in Paesi in guerra: i bambini affamati dello Yemen, i bambini affamati nella Siria, i bambini affamati in tanti Paesi dove non c’è il pane, nel Sud Sudan. Pesiamo a questi bambini e pensando a loro diciamo insieme, a voce alta, la preghiera: “Padre, dacci oggi il pane quotidiano”. Tutti insieme.
Il pane che chiediamo al Signore nella preghiera è quello stesso che un giorno ci accuserà. Ci rimprovererà la poca abitudine a spezzarlo con chi ci è vicino, la poca abitudine a condividerlo. Era un pane regalato per l’umanità, e invece è stato mangiato solo da qualcuno: l’amore non può sopportare questo. Il nostro amore non può sopportarlo; e neppure l’amore di Dio può sopportare questo egoismo di non condividere il pane.
Una volta c’era una grande folla davanti a Gesù; era gente che aveva fame. Gesù domandò se qualcuno avesse qualcosa, e si trovò solo un bambino disposto a condividere la sua provvista: cinque pani e due pesci. Gesù moltiplicò quel gesto generoso (cfr Gv 6,9). Quel bambino aveva capito la lezione del “Padre nostro”: che il cibo non è proprietà privata – mettiamoci questo in testa: il cibo non è proprietà privata -, ma provvidenza da condividere, con la grazia di Dio.
Il vero miracolo compiuto da Gesù quel giorno non è tanto la moltiplicazione – che è vero -, ma la condivisione: date quello che avete e io farò il miracolo. Egli stesso, moltiplicando quel pane offerto, ha anticipato l’offerta di Sé nel Pane eucaristico. Infatti, solo l’Eucaristia è in grado di saziare la fame di infinito e il desiderio di Dio che anima ogni uomo, anche nella ricerca del pane quotidiano.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 10 Aprile 2019
Dopo aver chiesto a Dio il pane di ogni giorno, la preghiera del “Padre nostro” entra nel campo delle nostre relazioni con gli altri. E Gesù ci insegna a chiedere al Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Come abbiamo bisogno del pane, così abbiamo bisogno del perdono. E questo, ogni giorno.
Il cristiano che prega chiede anzitutto a Dio che vengano rimessi i suoi debiti, cioè i suoi peccati, le cose brutte che fa. Questa è la prima verità di ogni preghiera: fossimo anche persone perfette, fossimo anche dei santi cristallini che non deflettono mai da una vita di bene, restiamo sempre dei figli che al Padre devono tutto. L’atteggiamento più pericoloso di ogni vita cristiana qual è? È l’orgoglio. È l’atteggiamento di chi si pone davanti a Dio pensando di avere sempre i conti in ordine con Lui: l’orgoglioso crede che ha tutto al suo posto.
Come quel fariseo della parabola, che nel tempio pensa di pregare ma in realtà loda sé stesso davanti a Dio: “Ti ringrazio, Signore, perché io non sono come gli altri”. E la gente che si sente perfetta, la gente che critica gli altri, è gente orgogliosa. Nessuno di noi è perfetto, nessuno. Al contrario il pubblicano, che era dietro, nel tempio, un peccatore disprezzato da tutti, si ferma sulla soglia del tempio, e non si sente degno di entrare, e si affida alla misericordia di Dio. E Gesù commenta: «Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato» (Lc 18,14), cioè perdonato, salvato. Perché? Perché non era orgoglioso, perché riconosceva i suoi limiti e i suoi peccati.
Ci sono peccati che si vedono e peccati che non si vedono. Ci sono peccati eclatanti che fanno rumore, ma ci sono anche peccati subdoli, che si annidano nel cuore senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Il peggiore di questi è la superbia che può contagiare anche le persone che vivono una vita religiosa intensa. C’era una volta un convento di suore, nell’anno 1600-1700, famoso, al tempo del giansenismo: erano perfettissime e si diceva di loro che fossero purissime come gli angeli, ma superbe come i demoni. È una cosa brutta. Il peccato divide la fraternità, il peccato ci fa presumere di essere migliori degli altri, il peccato ci fa credere che siamo simili a Dio.
E invece davanti a Dio siamo tutti peccatori e abbiamo motivo di batterci il petto – tutti! – come quel pubblicano al tempio. San Giovanni, nella sua prima Lettera, scrive: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1 Gv1,8). Se tu vuoi ingannare te stesso, dì che non hai peccato: così ti stai ingannando.
Siamo debitori anzitutto perché in questa vita abbiamo ricevuto tanto: l’esistenza, un padre e una madre, l’amicizia, le meraviglie del creato... Anche se a tutti capita di attraversare giorni difficili, dobbiamo sempre ricordarci che la vita è una grazia, è il miracolo che Dio ha estratto dal nulla.
In secondo luogo siamo debitori perché, anche se riusciamo ad amare, nessuno di noi è capace di farlo con le sue sole forze. L’amore vero è quando possiamo amare, ma con la grazia di Dio. Nessuno di noi brilla di luce propria. C’è quello che i teologi antichi chiamavano un “mysterium lunae” non solo nell’identità della Chiesa, ma anche nella storia di ciascuno di noi. Cosa significa, questo “mysterium lunae”? Che è come la luna, che non ha luce propria: riflette la luce del sole.
Anche noi, non abbiamo luce propria: la luce che abbiamo è un riflesso della grazia di Dio, della luce di Dio. Se ami è perché qualcuno, all’esterno di te, ti ha sorriso quando eri un bambino, insegnandoti a rispondere con un sorriso. Se ami è perché qualcuno accanto a te ti ha risvegliato all’amore, facendoti comprendere come in esso risiede il senso dell’esistenza.
Proviamo ad ascoltare la storia di qualche persona che ha sbagliato: un carcerato, un condannato, un drogato … conosciamo tanta gente che sbaglia nella vita. Fatta salva la responsabilità, che è sempre personale, ti domandi qualche volta chi debba essere incolpato dei suoi sbagli, se solo la sua coscienza, o la storia di odio e di abbandono che qualcuno si porta dietro.
E questo è il mistero della luna: amiamo anzitutto perché siamo stati amati, perdoniamo perché siamo stati perdonati. E se qualcuno non è stato illuminato dalla luce del sole, diventa gelido come il terreno d’inverno.
Come non riconoscere, nella catena d’amore che ci precede, anche la presenza provvidente dell’amore di Dio? Nessuno di noi ama Dio quanto Lui ha amato noi. Basta mettersi davanti a un crocifisso per cogliere la sproporzione: Egli ci ha amato e sempre ci ama per primo.
Preghiamo dunque: Signore, anche il più santo in mezzo a noi non cessa di essere tuo debitore. O Padre, abbi pietà di tutti noi!
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”
La domanda è formulata in virtù del dono della fortezza.
Capita molte volte che una persona divenga timida per la sua grande scienza e sapienza e che perciò le sia necessaria la fortezza del cuore perché non si abbatta nelle difficoltà. Ebbene, questa Fortezza la infonde lo Spirito Santo, il quale “dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Is 40,29) e di cui dice Ezechiele: “uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi” (Ez 2,2).
Infusa dallo Spirito Santo, questa Fortezza fa sì che il cuore dell’uomo non si deprima per paura delle prove, ma abbia ferma fiducia che quanto gli è necessario gli verrà dato da Dio. Ecco perché lo Spirito Santo, che dona tale Fortezza, ci insegna a chiedere a Dio il nostro pane. E perciò si chiama “Spirito di Fortezza”.
Nelle prime tre domande si chiedono beni spirituali i quali, sebbene abbiano inizio in questo mondo, avranno il loro conseguimento perfetto solo nella vita eterna. Quando dunque diciamo “sia santificato il nome di Dio”, noi chiediamo che la santità di Dio venga riconosciuta; quando diciamo “venga il tuo Regno”, chiediamo di venire resi partecipi della vita eterna; quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, chiediamo che la sua volontà abbia il suo compimento in noi.
Tutte cose queste che, pur cominciando a realizzarsi in questo mondo, non possono avere la loro piena realizzazione che nella vita eterna. Era perciò necessario che chiedessimo a Dio alcune cose che si possono avere in modo perfetto anche nella vita presente.
A tal fine lo Spirito Santo ci ha insegnato a chiedere le cose necessarie alla vita presente, che possiamo avere pienamente in questo mondo, anche per dimostrarci che pure i beni temporali ci vengono dati da Dio. Ed Egli fa questo facendoci dire: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Con le parole “dacci oggi il nostro pane quotidiano” lo Spirito Santo ci insegna ad evitare cinque peccati nei quali siamo indotti dal desiderio delle cose temporali.
1 Il peccato di chi, spinto da smodata bramosia, cerca ciò che è al di là del suo stato e della sua condizione, non contento di quanto gli spetta. Per esempio, uno che è soldato, non vuole abiti da soldato, ma da conte; uno che è chierico, non vuole vestiti da chierico, ma da vescovo.
Questo difetto distoglie gli uomini dai beni spirituali, perché il loro desiderio è troppo legato ai beni temporali.
Il Signore ci ha insegnato a evitare questo difetto chiedendoci di domandare solo il pane, cioè l’indispensabile alla vita presente, secondo la condizione di ciascuno. Non ci insegnò, quindi, a chiedere cose delicate, scelte e raffinate, ma il pane, senza del quale la vita dell’uomo non può sussistere ed è indispensabile per tutti, come dice il Siracide: “indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito” (Sir 29,28). Per questo S. Paolo esorta: “Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo” (1 Tm 6,8).
2 - Un secondo peccato è quello di coloro che, per acquisire beni temporali, danneggiano gli altri e li defraudano. E questo è un vizio tanto più pericoloso, quanto più è difficile che il maltolto venga restituito. Dice S. Agostino che “i peccati non vengono rimessi se non si restituisce il maltolto” (Ep. 153,6,20) e S. Gregorio “i ladri mangiano un pane di iniquità”. Ebbene ci viene insegnato a evitare questo vizio, facendoci chiedere il pane “nostro”, non quello degli altri. I ladri, infatti, non mangiano il proprio pane ma quello degli altri.
3 - Un terzo vizio è il soverchio affannarsi.
Ci sono persone che non sono mai contente di quello che hanno, ma vorrebbero avere sempre di più: cosa questa certamente sregolata, perché regola del desiderio è la necessità. Il Saggio chiedeva al Signore: “Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi” (Pr 30,8 9). Gesù ci ha insegnato a evitare questo vizio facendoci chiedere il nostro pane “quotidiano”, cioè quello che basta per un giorno o per un solo periodo.
4 - Un quarto vizio è l’ingordigia.
Ci sono persone che vogliono consumare in un solo giorno quanto basterebbe loro per molti giorni. Costoro non chiedono davvero il pane quotidiano, ma il pane di dieci giorni. E poiché per procurarselo spendono troppo, succede che spendano quanto possiedono. La Scrittura dice: “L’ubriacone e il ghiottone impoveriranno” (Pr 23,21) e ancora: “Un operaio ubriacone non arricchirà” (Sir 19,1).
5 - Il quinto vizio è l’ingratitudine.
Chi ha ricchezze facilmente si insuperbisce e non riconosce che tutto quello che ha gli viene da Dio. Questo è un male molto grande, perché tutti i beni che abbiamo, siano essi spirituali o materiali, ci provengono da Dio, come afferma giustamente il re Davide: “Tutto è tuo, Signore... tutto proviene da te” (1 Cr 29,11 14). Per rimuovere questo vizio ci è perciò stato insegnato a dire: “Dacci il nostro pane”, affinché impariamo che tutte le nostre cose sono da Dio.
E di questo abbiamo anche una prova. Accade talvolta che qualcuno possieda molte ricchezze, eppure da esse non tragga alcuna utilità, ma anzi soltanto danno spirituale e temporale. Alcuni sono infatti periti proprio a causa delle loro ricchezze. Racconta infatti il Qoelet: “Un brutto malanno ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a proprio danno. Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani” (Qo 5,12 13). E ancora: “Un altro male ho visto sotto il sole, che pesa molto sopra gli uomini. A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, perché è un estraneo che ne gode” (Qo 6,1).
Dobbiamo perciò pregare che le nostre ricchezze tornino a nostra utilità. Questo noi chiediamo quando diciamo: “Dacci il nostro pane” vale a dire: “fa che le nostre ricchezze ci siano utili”.
Eviteremo così che capiti anche a noi quanto si legge: “Il suo cibo gli si guasterà nelle viscere, veleno d’aspidi gli sarà nell’intestino. I beni divorati ora rivomita, Dio glieli caccia fuori dal ventre” (Gb 20,14 15).
6 - Un altro vizio troviamo poi nelle cose del mondo, l’eccessiva preoccupazione.
Ci sono alcuni, infatti, che già da oggi si preoccupano di ciò che potrà succedere tra un anno e vi pensano continuamente, sempre inquieti, contrariamente a quanto esorta il Signore: “Non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” (Mt 6,31). Per questo il Signore ci insegna a chiedere che ci sia dato oggi il nostro pane, ossia quanto ci è necessario al presente.
Ma ci sono anche altre due specie di pane: quello sacramentale e il pane della Parola di Dio (S. Cipriano, De oratione dominica).
Ebbene, noi chiediamo il nostro Pane sacramentale, che la Chiesa consacra ogni giorno, perché come lo riceviamo nel Sacramento, così ci giovi per la nostra salvezza. “Io sono il pane disceso dal cielo. - dice Gesù - Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). Ma S. Paolo avverte: “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 29).
L’altro pane è la Parola di Dio, dato che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4). Quando gli chiediamo di darci il pane, chiediamo perciò a Dio che ci dia la sua parola. Da essa proviene quella beatitudine promessa a chi ha fame di giustizia. Infatti, una volta ottenuti i beni spirituali, li desideriamo ancora di più. Da questo desiderio nasce la fame, e dalla fame quella sazietà della vita eterna, alla quale noi tendiamo.
DALLA REGOLA DI VITA
art. 29: l’orionina farà dell’Eucarestia, “fonte e culmine di tutta la vita cristiana”, il centro della propria giornata, imparando ad offrire a Dio, insieme a Cristo, se stessa, il proprio lavoro, le proprie gioie, le proprie sofferenze, per essere con Cristo partecipe della redenzione del mondo, per poter dire con San Paolo “completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo Corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2830: “Il nostro pane”. Il Padre, che ci dona la vita, non può non darci il nutrimento necessario per la vita, tutti i beni “convenienti”, materiali e spirituali. Nel Discorso della montagna Gesù insiste su questa confidenza filiale che coopera con la Provvidenza del Padre nostro. Egli non ci spinge alla passività, ma vuole liberarci da ogni affanno e da ogni preoccupazione. Tale è l’abbandono filiale dei figli di Dio.
A chi cerca il Regno di Dio e la sua giustizia, egli promette di dare tutto in aggiunta. In realtà, tutto appartiene a Dio e nulla manca all’uomo che possiede Dio, se egli stesso non manca a Dio. (San Cipriano di Cartagine - De oratione dominica).
n. 2839: Abbiamo iniziato a pregare il Padre nostro con una confidenza audace. Implorando che il suo Nome sia santificato, gli abbiamo chiesto di essere sempre più santificati. Ma, sebbene rivestiti della veste battesimale, noi non cessiamo di peccare, di allontanarci da Dio. Ora, con questa nuova domanda, torniamo a Lui, come il figlio prodigo, e ci riconosciamo peccatori, davanti a lui, come il pubblicano. La nostra richiesta inizia con una <
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
Eucarestia
Se è vero che l'amore o, meglio, la carità di Cristo ci incalza, come non saremo solleciti di farla ardere questa carità e di fecondarla andando noi a Gesù, andando alla fonte viva ed eterna della Carità stessa, che è l'Eucaristia?
"Senza di me non potete fare nulla", ha detto Gesù.
Ci vuole Gesù! E Gesù tutti i giorni; e non fuori di noi, ma in noi spiritualmente e sacramentalmente. Egli sarà la vita, il conforto e la felicità nostra. Tutto deve essere basato sulla Santissima Eucaristia: non vi è altra base, non vi è altra vita, sia per noi che per i nostri cari poveri. Solo all'altare e alla mensa di quel Dio che è umiltà e carità, noi impareremo a farci fanciulli e piccoli con i nostri fratelli e ad amarli come vuole il Signore.
Solamente così formeremo un cuore solo con Gesù e con i nostri fratelli, i poveri di Gesù. Non basta pensare a dare loro il pane materiale; prima del pane materiale dobbiamo pensare a dare loro il pane eterno di vita, che è l'Eucaristia.
Per rimanere noi nel Signore è necessario che il Signore venga di frequente e, possibilmente, ogni mattina in noi.
Ogni giorno il corpo sente il bisogno del suo cibo; e non sentirà l'anima il bisogno del suo Pane, del "pane vivo disceso dal cielo", che è per noi come scriveva Sant'Ignazio "farmaco di immortalità"? Il giovane sarà onesto, se sarà pio, se frequenterà bene i santi Sacramenti.
"Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, sta in me ed io in lui", ha detto Gesù. Vi è cosa migliore che rimanere noi nel Signore e il Signore in noi? Su, o carissimi, la Carità di Cristo ci incalza!
La migliore carità che si può fare ad un'anima è di darle Gesù! E la più dolce consolazione che possiamo dare a Gesù è di dargli un'anima.
Questo è il suo regno.
Conforto e benedico tutti nel Signore.
PREGHIERA FINALE
Padre nostro,
sia fatta la tua volontà
come in Cielo così in terra:
affinché ti amiamo con tutto il cuore,
sempre pensando a Te;
con tutta l’anima,
sempre desiderando Te;
con tutta la mente,
indirizzando a Te tutte le nostre intenzioni;
e in ogni cosa
cercando il tuo onore;
e con tutte le nostre forze,
spendendo tutte le nostre energie
e i sensi dell’anima e del corpo
in offerta di lode al tuo amore
e non per altro;
e affinché amiamo il nostro prossimo
come noi stessi,
attirando tutti al tuo amore. Amen
SCHEDA n° 7
Siamo debitori verso Dio e verso i fratelli
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo aprici alla gratitudine
per tutti i doni che abbiamo ricevuto dalle mani di Dio,
primo fra tutti il dono della vita.
Spirito Santo insegnaci a ringraziare
poiché con Dio abbiamo debiti incolmabili
che mai potremo restituire.
Spirito Santo fa’ che la relazione di benevolenza che Dio ha con noi
diventi per ciascuno impegno e appello
a costruire relazioni nuove con i nostri fratelli.
Spirito Santo donaci di comprendere che viviamo sotto la benedizione di Dio,
che la sua Misericordia è sempre pronta a coprire e scusare ogni nostra magagna
ma che ci chiede di non chiudere il cuore
a quanti aspettano da noi misericordia e perdono. Amen
Dal vangelo secondo Luca (Lc 15,1-7)
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». Allora egli disse loro questa parabola: «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 24 Aprile 2019
Oggi completiamo la catechesi sulla quinta domanda del “Padre nostro”, soffermandoci sull’espressione «come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Abbiamo visto che è proprio dell’uomo essere debitore davanti a Dio: da Lui abbiamo ricevuto tutto, in termini di natura e di grazia. La nostra vita non solo è stata voluta, ma è stata amata da Dio. Davvero non c’è spazio per la presunzione quando congiungiamo le mani per pregare. Non esistono nella Chiesa “self made man”, uomini che si sono fatti da soli. Siamo tutti debitori verso Dio e verso tante persone che ci hanno regalato condizioni di vita favorevoli. La nostra identità si costruisce a partire dal bene ricevuto. Il primo è la vita.
Chi prega impara a dire “grazie”. E noi ci dimentichiamo tante volte di dire “grazie”, Siamo egoisti. Chi prega impara a dire “grazie” e chiede a Dio di essere benevolo con lui o con lei. Per quanto ci sforziamo, rimane sempre un debito incolmabile davanti a Dio, che mai potremo restituire: Egli ci ama infinitamente più di quanto noi lo amiamo. E poi, per quanto ci impegniamo a vivere secondo gli insegnamenti cristiani, nella nostra vita ci sarà sempre qualcosa di cui chiedere perdono: pensiamo ai giorni trascorsi pigramente, ai momenti in cui il rancore ha occupato il nostro cuore e così via. Sono queste esperienze, purtroppo non rare, che ci fanno implorare: “Signore, Padre, rimetti a noi i nostri debiti”. Chiediamo così perdono a Dio.
A pensarci bene, l’invocazione poteva anche limitarsi a questa prima parte; sarebbe stata bella. Invece Gesù la salda con una seconda espressione che fa tutt’uno con la prima. La relazione di benevolenza verticale da parte di Dio si rifrange ed è chiamata a tradursi in una relazione nuova che viviamo con i nostri fratelli: una relazione orizzontale. Il Dio buono ci invita ad essere tutti quanti buoni. Le due parti dell’invocazione si legano insieme con una congiunzione impietosa: chiediamo al Signore di rimettere i nostri debiti, i nostri peccati, “come” noi perdoniamo i nostri amici, la gente che vive con noi, i nostri vicini, la gente che ci ha fatto qualcosa di non bello.
Ogni cristiano sa che esiste per lui il perdono dei peccati, questo lo sappiamo tutti: Dio perdona tutto e perdona sempre. Quando Gesù racconta ai suoi discepoli il volto di Dio, lo tratteggia con espressioni di tenera misericordia. Dice che c’è più gioia nei cieli per un peccatore che si pente, piuttosto che per una folla di giusti che non hanno bisogno di conversione (cfr Lc 15,7.10). Nulla nei Vangeli lascia sospettare che Dio non perdoni i peccati di chi è ben disposto e chiede di essere riabbracciato.
Ma la grazia di Dio, così abbondante, è sempre impegnativa. Chi ha ricevuto tanto deve imparare a dare tanto e non trattenere solo per sé quello che ha ricevuto. Chi ha ricevuto tanto deve imparare a dare tanto. Non è un caso che il Vangelo di Matteo, subito dopo aver regalato il testo del “Padre nostro”, tra le sette espressioni usate si soffermi a sottolineare proprio quella del perdono fraterno: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14-15). Ma questo è forte! Io penso: alcune volte ho sentito gente che ha detto: “Io non perdonerò mai quella persona! Quello che mi hanno fatto non lo perdonerò mai!”. Ma se tu non perdoni, Dio non ti perdonerà. Tu chiudi la porta. Pensiamo, noi, se siamo capaci di perdonare o se non perdoniamo. Un prete, quando ero nell’altra diocesi, mi ha raccontato angosciato che era andato a dare gli ultimi sacramenti ad un’anziana che era in punto di morte. La povera signora non poteva parlare. E il sacerdote le dice: “Signora, lei si pente dei peccati?”. La signora ha detto di sì; non poteva confessarli ma ha detto di sì. È sufficiente. E poi ancora: “Lei perdona gli altri?”. E la signora, in punto di morte ha detto: “No”. Il prete è rimasto angosciato. Se tu non perdoni, Dio non ti perdonerà. Pensiamo, noi che stiamo qui, se noi perdoniamo o se siamo capaci di perdonare. “Padre, io non ce la faccio, perché quella gente me ne ha fatte tante”. Ma se tu non ce la fai, chiedi al Signore che ti dia la forza per farcela: Signore, aiutami a perdonare. Ritroviamo qui la saldatura tra l’amore per Dio e quello per il prossimo. Amore chiama amore, perdono chiama perdono. Ancora in Matteo troviamo una parabola intensissima dedicata al perdono fraterno (cfr 18,21-35). Ascoltiamola.
C’era un servo che aveva contratto un debito enorme con il suo re: diecimila talenti! Una somma impossibile da restituire; non so quanto sarebbe oggi, ma centinaia di milioni. Però succede il miracolo, e quel servo riceve non una dilazione di pagamento, ma il condono pieno. Una grazia insperata! Ma ecco che proprio quel servo, subito dopo, si accanisce contro un suo fratello che gli deve cento denari – piccola cosa -, e, pur essendo questa una cifra accessibile, non accetta scuse né suppliche. Perciò, alla fine, il padrone lo richiama e lo fa condannare. Perché se non ti sforzi di perdonare, non verrai perdonato; se non ti sforzi di amare, nemmeno verrai amato.
Gesù inserisce nei rapporti umani la forza del perdono. Nella vita non tutto si risolve con la giustizia. No. Soprattutto laddove si deve mettere un argine al male, qualcuno deve amare oltre il dovuto, per ricominciare una storia di grazia. Il male conosce le sue vendette, e se non lo si interrompe rischia di dilagare soffocando il mondo intero.
Alla legge del taglione – quello che tu hai fatto a me, io lo restituisco a te, Gesù sostituisce la legge dell’amore: quello che Dio ha fatto a me, io lo restituisco a te! Pensiamo oggi, in questa settimana di Pasqua tanto bella, se io sono capace di perdonare. E se non mi sento capace, devo chiedere al Signore che mi dia la grazia di perdonare, perché è una grazia il saper perdonare.
Dio dona ad ogni cristiano la grazia di scrivere una storia di bene nella vita dei suoi fratelli, specialmente di quelli che hanno compiuto qualcosa di spiacevole e di sbagliato. Con una parola, un abbraccio, un sorriso, possiamo trasmettere agli altri ciò che abbiamo ricevuto di più prezioso. Qual è la cosa preziosa che noi abbiamo ricevuto? Il perdono, che dobbiamo essere capaci di dare anche agli altri.
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
“Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”
Vi sono persone che possiedono grande sapienza e fortezza, ma confidano troppo nelle proprie forze e pertanto, non comportandosi saggiamente in quello che fanno, non portano a termine i loro propositi e non tengono conto dell’avvertimento: “Pondera bene i tuoi disegni, consigliandoti” (Pr 20,18).
Bisogna perciò che lo Spirito Santo, che elargisce il Dono di Fortezza, dia anche quello di Consiglio, perché ogni buon consiglio riguardante la salvezza degli uomini viene dallo Spirito Santo.
Il dono del consiglio è indispensabile all’uomo quando è nella prova. Come egli ha bisogno di ricorrere al consiglio del medico quando è ammalato, così quando è spiritualmente infermo a causa del peccato, per guarirne deve chiedere consiglio.
Che il dono del consiglio sia necessario al peccatore, lo dimostra anche Daniele quando scrive: “Accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti” (Dn 4,24). Ottimo consiglio contro i peccati è quindi quello di fare elemosina e di usare misericordia. Per questo lo Spirito Santo insegna ai peccatori di chiedere nella preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Nei confronti di Dio siamo debitori dei suoi diritti quando lo defraudiamo. È diritto di Dio che noi facciamo la sua volontà, preferendola alla nostra. Quando noi preferiamo la nostra volontà alla sua, lo defraudiamo di un suo diritto, e questo è peccato. I peccati sono allora nostri debiti nei riguardi di Dio. Di essi lo Spirito Santo ci consiglia di chiedere il perdono. E noi lo facciamo dicendo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Su questa richiesta possiamo farci tre domande:
1) per quali ragioni si faccia tale richiesta;
2) quando si adempia;
3) che cosa si esige da parte nostra perché si adempia. Ed ecco le risposte.
Da questa richiesta noi possiamo raccogliere due ammaestramenti che sono necessari agli uomini in questa vita.
Il primo, è che gli uomini devono mantenersi sempre nel timore e nell’umiltà.
Ci furono infatti alcuni tanto presuntuosi da insegnare che l’uomo è in grado di vivere in questo mondo riuscendo con le sue sole forze a evitare il peccato. Ma questo non fu mai concesso ad alcuno, tranne a Cristo, che possedette lo Spirito senza misura (Gv 3,34), e alla beata Vergine, che fu piena di grazia e nella quale non ci fu alcun peccato, come dice Agostino: “Quando si parla di peccati non voglio che ella sia neppure nominata” (De natura et gratia 36,42).
Ma a nessun altro santo fu dato di non incorrere almeno in colpe veniali, per cui S. Giovanni poté scrivere: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8). E ne è conferma anche la presente domanda. Sicché ovviamente, conviene a tutti i santi e a tutti gli uomini recitare il Pater noster, dove appunto si dice: “Rimetti a noi i nostri debiti”, riconoscendo così e confessando di essere debitori e di conseguenza peccatori. Se quindi tu sei peccatore, devi temere e umiliarti.
L’altro ammaestramento è l’esortazione a vivere sempre nella speranza, perché, quantunque peccatori, non dobbiamo disperare, per evitare che la disperazione non ci spinga a commettere altri e più gravi peccati, come accadde ai pagani dei quali dice l’Apostolo: “Presi dalla disperazione, si abbandonarono alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile” (Ef 4,19).
Perciò è molto utile sperare sempre, perché, per quanto sia peccatore, l’uomo deve avere fiducia che, se si pente perfettamente, Dio gli perdonerà. E questa speranza si rafforza in noi quando chiediamo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.
Questa speranza fu negata dai Novaziani [eretici del 3° secolo], i quali insegnavano che se uno peccava anche una sola volta dopo il Battesimo, non poteva mai più ottenere perdono. Ma ciò non è vero, perché Cristo ha detto: “Io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato” (Mt 18,32). Perciò otterrai da Dio perdono da qualsiasi peccato se, pentito, glielo chiederai.
Da tale invocazione nascono dunque il timore e la speranza, dal momento che tutti i peccatori, purché contriti e confessati, ottengono misericordia. Ecco perché questa invocazione era necessaria.
Quanto alla seconda domanda, si deve sapere che nel peccato bisogna distinguere due cose: la colpa con la quale si offende Dio e la pena dovuta per la colpa.
Ebbene, la colpa è rimessa per la contrizione, congiunta col proposito di confessarsi e di soddisfare, come dice anche il salmista: “Ho detto: confesserò al Signore le mie colpe, e tu hai rimesso la malizia del mio peccato” (Sal 31,5). Non c’è quindi motivo di disperare, dato che per la remissione della colpa è sufficiente la contrizione col proposito di confessarsi.
Ma qualcuno potrebbe obiettare: se per ottenere il perdono della colpa basta la contrizione, a che cosa serve il sacerdote? Al che si risponde, che per la contrizione Dio rimette sì la colpa, ma la pena eterna viene tramutata in temporale; per cui il peccatore resta ancora obbligato a scontare questa pena. Se perciò egli morisse senza confessione, non per averla disprezzata ma per non aver avuto modo di farla, andrebbe in purgatorio, dove la pena, al dire di Agostino, è grandissima. Quando dunque tu ti confessi, il sacerdote ti assolve da questa pena per il potere delle chiavi perché a lui ti sottometti confessandoti. Cristo infatti disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22 23). Pertanto quando uno si confessa una volta, gli viene condonata parte di questa pena, e così quando si confessa di nuovo; di modo che si potrebbe confessare tante volte fino a che non gli è rimessa completamente la pena.
I successori degli Apostoli hanno escogitato anche un’altra maniera per rimettere questa pena, ossia col beneficio delle indulgenze, le quali, per quanti vivono nella carità, hanno valore nella misura e alle condizioni in cui sono concesse. Che il papa possa concederle è fuori dubbio. Molti fecero infatti numerose opere buone, senza che essi avessero peccato, almeno mortalmente. Le loro opere buone le fecero perciò a beneficio della Chiesa. Similmente, il merito di Cristo e quello della Beata Vergine costituiscono un tesoro comune. Di conseguenza, il Sommo Pontefice, e colui al quale egli ne abbia dato facoltà, può dispensare tale tesoro quando lo crede necessario.
In tal modo i peccati vengono perdonati quanto alla colpa dalla contrizione, quanto alla pena con la confessione e per mezzo delle indulgenze.
Quanto alla terza domanda, va notato che da parte nostra si esige che noi perdoniamo al nostro prossimo le offese da lui fatteci. Per questo diciamo: “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Diversamente Dio non ci perdonerebbe. Sta scritto infatti: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore?” (Sir 28,2 3).
E ancora: “Perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6, 37). Ed è questo il motivo per cui soltanto in questa domanda è posta la condizione “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
Se quindi non perdoni non sarai perdonato.
Potresti però obiettare: io pronuncerò la prima parte della preghiera, ossia “rimetti a noi i nostri debiti”, omettendo la seconda “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Ma credi forse di poter ingannare Cristo? Lui, che compose questa preghiera, ben la ricorda e quindi non potrai ingannarlo. Quello che dici con la bocca, cerca perciò di adempierlo col cuore.
Ma ci si può domandare se chi non si propone di perdonare al suo prossimo, debba dire ugualmente le parole “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Sembrerebbe di no, perché in tal caso pregherebbe che i suoi debiti non gli vengano perdonati. Si deve invece rispondere che deve dirle, perché egli non prega a nome proprio, ma a nome della Chiesa che non si inganna. Per questo la domanda viene fatta al plurale.
Bisogna poi anche considerare che il perdono agli altri può venire accordato in due modi.
Uno è quello dei perfetti e si ha quando è lo stesso offeso che va a cercare chi lo ha offeso, secondo il consiglio del salmista: “Cerca la pace e perseguila” (Sal 33,15).
L’altro è quello comune a tutti e al quale tutti siamo tenuti, e consiste nel concedere il perdono a chi lo chiede, secondo quanto dice il Siracide: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati” (Sir 28,2).
A questa domanda si connette la beatitudine beati i misericordiosi. Perché è la misericordia che ci fa aver pietà del nostro prossimo.
DALLA REGOLA DI VITA
art. 37: …Le orionine vivranno in una vera e profonda amicizia, aiutandosi a crescere insieme nell’amore, per essere innanzitutto un segno della presenza del Signore, di cui sono discepole e la cui caratteristica è l’amore vicendevole (Gv 13,35).
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2842: Questo “come” non è unico nell’insegnamento di Gesù: “Siate perfetti “come” è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48); “Siate misericordiosi “come” è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6.36); “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri “come” io vi ho amati, così amatevi anche voi” (Gv 13,34). E’ impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall’esterno. Si tratta, invece, di una partecipazione vitale, che scaturisce “alla profondità del cuore”, alla Santità, alla Misericordia, all’ Amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, che è la nostra Vita, può fare “nostri”i medesimi sentiimenti che furono in Cristo Gesù. Allora diventa possibile l’unità del perdono, perdonarci “a vicenda “come” Dio ha perdonato a noi in Cristo” (Ef 4,32).
n. 2843: Così prendono vita le parole del Signore sul perdono, questo Amore che ama fino alla fine. La parabola del servo spietato, che corona l’insegnamento del Signore sulla comunione ecclesiale, termina con queste parole: ”Così anche il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”. E’ lì, infatti, “nella profondità del cuore” che tutto si lega e si scioglie. Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l’offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l’offesa in intercessione.
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
Avremo un grande rinnovamento se avremo una grande carità
Viviamo in un secolo che è pieno di gelo e di morte nella vita dello spirito. Tutto chiuso in se stesso, nulla vede che piaceri, vanità, passioni e la vita di questa terra, e non più. Chi darà vita a questa generazione morta alla vita di Dio, se non il soffio della Carità di Gesù Cristo? La faccia della terra si rinnovella al calore della primavera; ma il mondo morale solo avrà vita novella dal calore della Carità.
Noi dobbiamo chiedere a Dio non una scintilla di Carità, come dice l'Imitazione di Cristo, ma una fornace di Carità da infiammare noi e da rinnovellare il freddo e gelido mondo, con l'aiuto e per la grazia che ci darà il Signore.
Avremo un grande rinnovamento cattolico, se avremo una grande Carità. Dobbiamo, però, incominciare ad esercitarla oggi tra di noi, a coltivarla nel seno dei nostri istituti, che devono essere veri cenacoli di Carità. Nemo dat, quod non habet: non daremo alle anime fiamme di vita foco e luce di Carità, se prima non ne saremo accesi noi, e molto accesi.
La Carità deve essere il nostro slancio, il nostro ardore, la nostra vita: noi siamo i "garibaldini" della Carità di Gesù Cristo.
La causa di Dio e della sua Chiesa non si serve che con una grande Carità di vita e di opere. Non penetreremo le coscienze, non convertiremo la gioventù, non i popoli trarremo alla Chiesa, senza una grande Carità, e un vero sacrificio di noi, nella Carità di Cristo.
C'è una corruzione, nella società, spaventosa; c'è una ignoranza di Dio spaventosa; c'è un materialismo, un odio spaventoso: solo la Carità potrà ancora condurre a Dio i cuori e le popolazioni e salvarle.
PREGHIERA FINALE
Signore, tu lo vedi: io non so realmente perdonare il prossimo di cuore.
Anche se esprimo con le parole il mio perdono,
in fondo al mio animo permane il rancore
e non riesco più a vedere come prima la persona che mi ha fatto un torto.
Tu solo sai veramente perdonare, perché capisci la nostra fragilità.
Aiutami ad essere magnanimo e a scusare nel prossimo le debolezze.
Insegnami a considerare le infinite volte in cui tu mi hai perdonato,
nonostante la mia indifferenza e la mia durezza di cuore.
La tua misericordia è grande e misteriosa,
perdonami se non so perdonare come fai Tu.
Fa' che abbia sempre presente nella mia mente e nel mio cuore
il Regno che stai costruendo in noi:
Regno di pace e di Verità,
dove tutti ammireremo ciò che hai fatto in ognuno di noi
cancellando completamente i nostri peccati.
Donami un cuore puro, che sappia vedere Te nel mio prossimo,
in modo che i difetti passino in secondo piano
per considerare il meraviglioso progetto
che riservi per ogni uomo
che si abbandona fiducioso alla tua Misericordia.
Vieni, o Spirito Redentore! Amen
SCHEDA n° 8
Il nostro dialogo con Dio entra nel vivo di un dramma:
il confronto tra la nostra libertà e le insidie del maligno
PREGHIERA INIZIALE
Spirito Santo rendici vigilanti
perché “il diavolo come leone ruggente va in giro cercando chi divorare”.
Spirito Santo insegnaci a vigilare sui nostri affetti, sulle nostre relazioni:
c’è sempre qualcosa o qualcuno che vorrebbe rubare il posto, il primato di Dio.
Spirito Santo, insegnaci a ripetere, come don Orione: Dio solo!
Spirito Santo, quando le tempeste della vita sembrano travolgerci, grida in noi:
“Padre liberaci dal male”.
Spirito Santo fa’ che i dispiaceri, i fallimenti, ogni tipo di avversità
non offuschino l’orizzonte del nostro andare
e soprattutto che non intacchino negativamente la nostra fede. Amen
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo (1Pietro 5,1-8)
Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce. Ugualmente, voi, giovani, siate sottomessi agli anziani. Rivestitevi tutti di umiltà gli uni verso gli altri, perché Dio resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili. Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno, gettando in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi. Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 01 Maggio 2019
Proseguiamo nella catechesi sul “Padre nostro”, arrivando ormai alla penultima invocazione: «Non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13). Un’altra versione dice: “Non lasciare che cadiamo in tentazione”. Il “Padre nostro” incomincia in maniera serena: ci fa desiderare che il grande progetto di Dio si possa compiere in mezzo a noi. Poi getta uno sguardo sulla vita, e ci fa domandare ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno: il “pane quotidiano”. Poi la preghiera si rivolge alle nostre relazioni interpersonali, spesso inquinate dall’egoismo: chiediamo il perdono e ci impegniamo a darlo. Ma è con questa penultima invocazione che il nostro dialogo con il Padre celeste entra, per così dire, nel vivo del dramma, cioè sul terreno del confronto tra la nostra libertà e le insidie del maligno.
Come è noto, l’espressione originale greca contenuta nei Vangeli è difficile da rendere in maniera esatta, e tutte le traduzioni moderne sono un po’ zoppicanti. Su un elemento però possiamo convergere in maniera unanime: comunque si comprenda il testo, dobbiamo escludere che sia Dio il protagonista delle tentazioni che incombono sul cammino dell’uomo. Come se Dio stesse in agguato per tendere insidie e tranelli ai suoi figli. Un’interpretazione di questo genere contrasta anzitutto con il testo stesso, ed è lontana dall’immagine di Dio che Gesù ci ha rivelato. Non dimentichiamo: il “Padre nostro” incomincia con “Padre”. E un padre non fa dei tranelli ai figli. I cristiani non hanno a che fare con un Dio invidioso, in competizione con l’uomo, o che si diverte a metterlo alla prova. Queste sono le immagini di tante divinità pagane. Leggiamo nella Lettera di Giacomo apostolo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (1,13). Semmai il contrario: il Padre non è l’autore del male, a nessun figlio che chiede un pesce dà una serpe (cfr Lc 11,11) – come Gesù insegna – e quando il male si affaccia nella vita dell’uomo, combatte al suo fianco, perché possa esserne liberato. Un Dio che sempre combatte per noi, non contro di noi. È il Padre! È in questo senso che noi preghiamo il “Padre nostro”.
Questi due momenti – la prova e la tentazione – sono stati misteriosamente presenti nella vita di Gesù stesso. In questa esperienza il Figlio di Dio si è fatto completamente nostro fratello, in una maniera che sfiora quasi lo scandalo. E sono proprio questi brani evangelici a dimostrarci che le invocazioni più difficili del “Padre nostro”, quelle che chiudono il testo, sono già state esaudite: Dio non ci ha lasciato soli, ma in Gesù Egli si manifesta come il “Dio-con-noi” fino alle estreme conseguenze. È con noi quando ci dà la vita, è con noi durante la vita, è con noi nella gioia, è con noi nelle prove, è con noi nelle tristezze, è con noi nelle sconfitte, quando noi pecchiamo, ma sempre è con noi, perché è Padre e non può abbandonarci.
Se siamo tentati di compiere il male, negando la fraternità con gli altri e desiderando un potere assoluto su tutto e tutti, Gesù ha già combattuto per noi questa tentazione: lo attestano le prime pagine dei Vangeli. Subito dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, in mezzo alla folla dei peccatori, Gesù si ritira nel deserto e viene tentato da Satana. Incomincia così la vita pubblica di Gesù, con la tentazione che viene da Satana. Satana era presente. Tanta gente dice: “Ma perché parlare del diavolo che è una cosa antica? Il diavolo non esiste”. Ma guarda che cosa ti insegna il Vangelo: Gesù si è confrontato con il diavolo, è stato tentato da Satana. Ma Gesù respinge ogni tentazione ed esce vittorioso. Il Vangelo di Matteo ha una nota interessante che chiude il duello tra Gesù e il Nemico: «Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (4,11).
Ma anche nel tempo della prova suprema Dio non ci lascia soli. Quando Gesù si ritira a pregare nel Getsemani, il suo cuore viene invaso da un’angoscia indicibile – così dice ai discepoli – ed Egli sperimenta la solitudine e l’abbandono. Solo, con la responsabilità di tutti i peccati del mondo sulle spalle; solo, con un’angoscia indicibile. La prova è tanto lacerante che capita qualcosa di inaspettato. Gesù non mendica mai amore per sé stesso, eppure in quella notte sente la sua anima triste fino alla morte, e allora chiede la vicinanza dei suoi amici: «Restate qui e vegliate con me!» (Mt 26,38). Come sappiamo, i discepoli, appesantiti da un torpore causato dalla paura, si addormentarono. Nel tempo dell’agonia, Dio chiede all’uomo di non abbandonarlo, e l’uomo invece dorme. Nel tempo in cui l’uomo conosce la sua prova, Dio invece veglia. Nei momenti più brutti della nostra vita, nei momenti più sofferenti, nei momenti più angoscianti, Dio veglia con noi, Dio lotta con noi, è sempre vicino a noi. Perché? Perché è Padre. Così abbiamo incominciato la preghiera: “Padre nostro”. E un padre non abbandona i suoi figli. Quella notte di dolore di Gesù, di lotta sono l’ultimo sigillo dell’Incarnazione: Dio scende a trovarci nei nostri abissi e nei travagli che costellano la storia.
È il nostro conforto nell’ora della prova: sapere che quella valle, da quando Gesù l’ha attraversata, non è più desolata, ma è benedetta dalla presenza del Figlio di Dio. Lui non ci abbandonerà mai!
Allontana dunque da noi, o Dio, il tempo della prova e della tentazione. Ma quando arriverà per noi questo tempo, Padre nostro, mostraci che non siamo soli. Tu sei il Padre. Mostraci che il Cristo ha già preso su di sé anche il peso di quella croce. Mostraci che Gesù ci chiama a portarla con Lui, abbandonandoci fiduciosi al tuo amore di Padre. Grazie.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 15 Maggio 2019
Eccoci infine arrivati alla settima domanda del “Padre nostro”: «Ma liberaci dal male» (Mt 6,13b). Con questa espressione, chi prega non solo chiede di non essere abbandonato nel tempo della tentazione, ma supplica anche di essere liberato dal male. Il verbo greco originale è molto forte: evoca la presenza del maligno che tende ad afferrarci e a morderci (cfr 1 Pt 5,8) e dal quale si chiede a Dio la liberazione. L’apostolo Pietro dice anche che il maligno, il diavolo, è intorno a noi come un leone furioso, per divorarci, e noi chiediamo a Dio di liberarci.
Con questa duplice supplica: “non abbandonarci” e “liberaci”, emerge una caratteristica essenziale della preghiera cristiana. Gesù insegna ai suoi amici a mettere l’invocazione del Padre davanti a tutto, anche e specialmente nei momenti in cui il maligno fa sentire la sua presenza minacciosa. Infatti, la preghiera cristiana non chiude gli occhi sulla vita. È una preghiera filiale e non una preghiera infantile. Non è così infatuata della paternità di Dio, da dimenticare che il cammino dell’uomo è irto di difficoltà. Se non ci fossero gli ultimi versetti del “Padre nostro” come potrebbero pregare i peccatori, i perseguitati, i disperati, i morenti? L’ultima petizione è proprio la petizione di noi quando saremo nel limite, sempre.
C’è un male nella nostra vita, che è una presenza inoppugnabile. I libri di storia sono il desolante catalogo di quanto la nostra esistenza in questo mondo sia stata un’avventura spesso fallimentare. C’è un male misterioso, che sicuramente non è opera di Dio ma che penetra silenzioso tra le pieghe della storia. Silenzioso come il serpente che porta il veleno silenziosamente. In qualche momento pare prendere il sopravvento: in certi giorni la sua presenza sembra perfino più nitida di quella della misericordia di Dio.
L’orante non è cieco, e vede limpido davanti agli occhi questo male così ingombrante, e così in contraddizione con il mistero stesso di Dio. Lo scorge nella natura, nella storia, perfino nel suo stesso cuore. Perché non c’è nessuno in mezzo a noi che possa dire di essere esente dal male, o di non esserne almeno tentato. Tutti noi sappiamo cosa è il male; tutti noi sappiamo cosa è la tentazione; tutti noi abbiamo sperimentato sulla nostra carne la tentazione, di qualsiasi peccato. Ma il tentatore che ci muove e ci spinge al male, dicendoci: “fa questo, pensa questo, va per quella strada”.
L’ultimo grido del “Padre nostro” è scagliato contro questo male “dalle larghe falde”, che tiene sotto il suo ombrello le esperienze più diverse: i lutti dell’uomo, il dolore innocente, la schiavitù, la strumentalizzazione dell’altro, il pianto dei bambini innocenti. Tutti questi eventi protestano nel cuore dell’uomo e diventano voce nell’ultima parola della preghiera di Gesù.
È proprio nei racconti della Passione che alcune espressioni del “Padre nostro” trovano la loro eco più impressionante. Dice Gesù: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Gesù sperimenta per intero la trafittura del male. Non solo la morte, ma la morte di croce. Non solo la solitudine, ma anche il disprezzo, l’umiliazione. Non solo il malanimo, ma anche la crudeltà, l’accanimento contro di Lui. Ecco che cos’è l’uomo: un essere votato alla vita, che sogna l’amore e il bene, ma che poi espone continuamente al male sé stesso e i suoi simili, al punto che possiamo essere tentati di disperare dell’uomo.
Cari fratelli e sorelle, così il “Padre nostro” assomiglia a una sinfonia che chiede di compiersi in ciascuno di noi. Il cristiano sa quanto soggiogante sia il potere del male, e nello stesso tempo fa esperienza di quanto Gesù, che mai ha ceduto alle sue lusinghe, sia dalla nostra parte e venga in nostro aiuto.
Così la preghiera di Gesù ci lascia la più preziosa delle eredità: la presenza del Figlio di Dio che ci ha liberato dal male, lottando per convertirlo. Nell’ora del combattimento finale, a Pietro intima di riporre la spada nel fodero, al ladrone pentito assicura il paradiso, a tutti gli uomini che erano intorno, inconsapevoli della tragedia che si stava consumando, offre una parola di pace: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).
Dal perdono di Gesù sulla croce scaturisce la pace, la vera pace viene dalla croce: è dono del Risorto, un dono che ci dà Gesù. Pensate che il primo saluto di Gesù risorto è “pace a voi”, pace alle vostre anime, ai vostri cuori, alle vostre vite. Il Signore ci dà la pace, ci dà il perdono ma noi dobbiamo chiedere: “liberaci dal male”, per non cadere nel male. Questa è la nostra speranza, la forza che ci dà Gesù risorto, che è qui, in mezzo a noi: è qui. È qui con quella forza che ci dà per andare avanti, e ci promette di liberarci dal male.
CATECHESI DI PAPA FRANCESCO
Mercoledì, 22 Maggio 2019
Oggi concludiamo il ciclo di catechesi sul “Padre nostro”. Possiamo dire che la preghiera cristiana nasce dall’audacia di chiamare Dio con il nome di “Padre”. Questa è la radice della preghiera cristiana: dire “Padre” a Dio. Ma ci vuole coraggio! Non si tratta tanto di una formula, quanto di un’intimità filiale in cui siamo introdotti per grazia: Gesù è il rivelatore del Padre e ci dona la familiarità con Lui. «Non ci lascia una formula da ripetere meccanicamente. Come per qualsiasi preghiera vocale, è attraverso la Parola di Dio che lo Spirito Santo insegna ai figli di Dio a pregare il loro Padre» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2766). Gesù stesso ha usato diverse espressioni per pregare il Padre. Se leggiamo con attenzione i Vangeli, scopriamo che queste espressioni di preghiera che affiorano sulle labbra di Gesù richiamano il testo del “Padre nostro”.
Per esempio, nella notte del Getsemani Gesù prega in questa maniera: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). Abbiamo già richiamato questo testo del Vangelo di Marco. Come non riconoscere in questa preghiera, per quanto breve, una traccia del “Padre nostro”? In mezzo alle tenebre, Gesù invoca Dio col nome di “Abbà”, con fiducia filiale e, pur sentendo paura e angoscia, chiede che si compia la sua volontà.
In altri passi del Vangelo Gesù insiste con i suoi discepoli, perché coltivino uno spirito di orazione. La preghiera deve essere insistente, e soprattutto deve portare il ricordo dei fratelli, specialmente quando viviamo rapporti difficili con loro. Dice Gesù: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe» (Mc 11,25). Come non riconoscere in queste espressioni l’assonanza con il “Padre nostro”? E gli esempi potrebbero essere numerosi, anche per noi.
Negli scritti di San Paolo non troviamo il testo del “Padre nostro”, ma la sua presenza emerge in quella sintesi stupenda dove l’invocazione del cristiano si condensa in una sola parola: “Abbà!” (cfr Rm 8,15; Gal 4,6).
Nel Vangelo di Luca, Gesù soddisfa pienamente la richiesta dei discepoli che, vedendolo spesso appartarsi e immergersi in preghiera, un giorno si decidono a chiedergli: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni – il Battista – ha insegnato ai suoi discepoli» (11,1). E allora il Maestro insegnò loro la preghiera al Padre.
Considerando nel complesso il Nuovo Testamento, si vede chiaramente che il primo protagonista di ogni preghiera cristiana è lo Spirito Santo. Ma non dimentichiamo questo: protagonista di ogni preghiera cristiana è lo Spirito Santo. Noi non potremmo mai pregare senza la forza dello Spirito Santo. È Lui che prega in noi e ci muove a pregare bene. Possiamo chiedere allo Spirito che ci insegni a pregare, perché Lui è il protagonista, quello che fa la vera preghiera in noi. Lui soffia nel cuore di ognuno di noi, che siamo discepoli di Gesù. Lo Spirito ci rende capaci di pregare come figli di Dio, quali realmente siamo per il Battesimo. Lo Spirito ci fa pregare nel “solco” che Gesù ha scavato per noi. Questo è il mistero della preghiera cristiana: per grazia siamo attratti in quel dialogo di amore della Santissima Trinità.
Gesù pregava così. Qualche volta ha usato espressioni che sono sicuramente molto lontane dal testo del “Padre nostro”. Pensiamo alle parole iniziali del salmo 22, che Gesù pronuncia sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). Può il Padre celeste abbandonare il suo Figlio? No, certamente. Eppure l’amore per noi, peccatori, ha portato Gesù fino a questo punto: fino a sperimentare l’abbandono di Dio, la sua lontananza, perché ha preso su di sé tutti i nostri peccati. Ma anche nel grido angosciato, rimane il «Dio mio, Dio mio». In quel “mio” c’è il nucleo della relazione col Padre, c’è il nucleo della fede e della preghiera.
Ecco perché, a partire da questo nucleo, un cristiano può pregare in ogni situazione. Può assumere tutte le preghiere della Bibbia, dei Salmi specialmente; ma può pregare anche con tante espressioni che in millenni di storia sono sgorgate dal cuore degli uomini. E al Padre non cessiamo mai di raccontare dei nostri fratelli e sorelle in umanità, perché nessuno di loro, i poveri specialmente, rimanga senza una consolazione e una porzione di amore.
Al termine di questa catechesi, possiamo ripetere quella preghiera di Gesù: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc 10,21). Per pregare dobbiamo farci piccoli, perché lo Spirito Santo venga in noi e sia Lui a guidarci nella preghiera.
DAL COMMENTO AL PADRE NOSTRO DI SAN TOMMASO D’AQUINO
“E non ci indurre in tentazione”
Alcuni peccano e poi, desiderando di ottenere il perdono dei loro peccati, li confessano e se ne pentono, senza però impegnarsi a fondo, come dovrebbero, per non ricadervi.
Ma non è davvero bello che uno, da una parte, pianga i propri peccati quando si pente, e dall’altra accumuli motivi di pianto tornando a peccare. Infatti sta scritto: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni, dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1,16).
Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.
A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:
1) che cos’è la tentazione,
2) come e da chi l’uomo viene tentato,
3) come viene liberato dalla tentazione.
Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Stà lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33,15).
La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare.
Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio. Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4). Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.
Nell’altro caso, la virtù dell’uomo viene messa a prova dall’istigazione al male. Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande. Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1,13).
In risposta al secondo interrogativo (come e da chi l’uomo viene tentato), si noti che l’uomo viene tentato al male in tre modi:
-dalla propria carne,
-dal diavolo
-e dal mondo.
Dalla carne viene tentato in due maniere.
La carne infatti istiga al male, perché ricerca sempre i propri piaceri nei quali, trattandosi di piaceri carnali, spesso c’è il peccato per il fatto che chi si lascia assorbire da essi trascura quelli dello spirito. Dice al riguardo S. Giacomo: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato” (Gc 1,14).
La carne poi tenta distogliendo l’uomo dal bene. Mentre infatti lo spirito, per quanto dipende da lui, si diletta sempre dei beni spirituali, la carne col suo peso gli è di impaccio, perché “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9,15). S. Paolo scrive in proposito: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,22 23).
E questa tentazione della carne è molto grave perché questo nostro nemico, cioè la carne, è congiunto a noi; e, come dice Boezio, “non c’è per noi peste più nociva di un nemico che sia della nostra famiglia” (De consolatione philosophiae III,5). Contro la carne perciò si deve vigilare: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41).
A sua volta, il diavolo tenta con estrema violenza.
Una volta infatti che si abbia vinta la carne, si scatena questo altro nostro nemico, il diavolo, contro il quale dobbiamo sostenere una grande battaglia: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
Per questo satana è detto espressamente il tentatore (Mt 4,3; I Ts 3,5). Il diavolo nel tentare usa molta astuzia. Come un abile capitano che assedia una fortezza, prima studia il punto debole della persona che vuol far cadere e poi la tenta là dove la scorge più vulnerabile.
Perciò una volta che gli uomini hanno resa inoffensiva la propria carne, Satana li tenta in quei vizi verso i quali sono più inclinati, quali l’ira, la superbia ed altri vizi spirituali. Dice S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5,8).
Quando poi egli tenta, mette in atto due espedienti.
Da principio non propone subito alla persona tentata un oggetto palesemente cattivo, ma qualcosa che abbia l’apparenza di bene, per stornarla inizialmente in tal modo dal suo proposito fondamentale e poterla poi in seguito indurre più facilmente al peccato, una volta che è riuscito a distoglierla sia pure di poco dal bene: in altre parole, “Satana si maschera da angelo di luce” (2 Cor 11,14).
In seguito poi, quando l’ha indotta al peccato, la lega talmente alla colpa da impedirle di distaccarsene, perché, al dire di Giobbe, “i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi” (Gb 40,17). Cosicché due cose fa il diavolo: prima inganna e poi trattiene nel peccato chi ha ingannato.
Il terzo tentatore è il mondo, il quale tenta anch’esso in due maniere.
Prima di tutto con un eccessivo e smoderato desiderio dei beni temporali, perché come dice l’Apostolo: “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,10).
Servendosi dei persecutori e dei tiranni, tenta poi anche incutendo terrore, per cui dice il Libro di Giobbe: “Anche noi siamo avvolti nelle tenebre” (Gb 37,19) e S. Paolo aggiunge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3,12). Ma il Signore ci rassicura: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28).
Dalle cose dette risulta perciò chiaro che cos’è la tentazione e come e da chi l’uomo viene tentato.
Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.
Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione.
Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2), e il Siracide aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1).
Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e S. Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Cor 10,12).
Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.
Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).
Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).
Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.
E, siccome Dio per bocca sua aveva promesso: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire” (Sal 31,8), questo dono Davide lo chiedeva invocandolo: “Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: l’ho vinto” (Sal 12,4 5).
Noi otteniamo tutto questo col Dono dell’Intelletto, mediante il quale, se non consentiamo alla tentazione, conserviamo un cuore puro, del quale viene detto “Beati i puri di cuore” (Mt 5,8).
In questa maniera perverremo alla visione beatifica, alla quale ci faccia giungere il Signore.
“Ma liberaci dal male. Amen”
Nelle due domande precedenti il Signore ci ha insegnato a chiedere il perdono dei peccati e il modo di evitare le tentazioni.
Qui invece ci insegna a chiedere di essere preservati dal male.
Tale richiesta è generale, come fa osservare Agostino, perché riguarda tutti i mali, sia i peccati che le infermità, le avversità e le afflizioni.
Ma poiché del peccato e delle tentazioni si è già detto, ora non ci resta che parlare degli altri mali, ossia delle avversità e tribolazioni di questo mondo, dalle quali Dio ci libera in quattro maniere.
1 - Impedendo che ci colpisca l’afflizione. Ma capita di rado che i santi in questo mondo non siano afflitti, perché “tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3,12). A qualcuno tuttavia Dio concede alle volte di non essere afflitto dal male, quando cioè lo sa impotente e incapace di sopportarlo, alla stessa maniera del medico, il quale non somministra medicine troppo forti a un malato debole. A questo modo di agire di Dio allude l’Apocalisse quando dice: “Ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere perché hai poca forza” (Ap 3,8; Volgata).
In cielo invece sarà comune a tutti i beati l’esenzione da ogni afflizione. Si dice infatti che il Signore: “da sei tribolazioni ti libererà - quelle cioè della vita presente, che suole distinguersi in sei età - e alla settima non li toccherà il male” (Gb 5,19), e ancora, che essi: “non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole né arsura di sorta” (Ap 7,16).
2 - Consolandoci quando le afflizioni sopraggiungono.
Se infatti Dio non lo consolasse, l’uomo non potrebbe resistere. L’Apostolo scriveva infatti di sé: “La tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze” (2 Cor 1,8), ma aggiungeva: “Dio che consola gli afflitti ci ha consolati” (2 Cor 7,6); e anche il salmista poteva dire di sé: “Quando ero oppresso dall’angoscia, il tuo conforto mi ha consolato” (Sal 93,19).
3 - Concedendo agli afflitti tanti beni da far loro dimenticare i mali, sì da far dire a Tobia “Tu non ti diletti delle nostre afflizioni, ma dopo la tempesta fai tornare la tranquillità e dopo le lacrime e il pianto infondi la gioia” (Tb 3,22).
Non sono dunque da temere le afflizioni e le tribolazioni di questo mondo perché sono facilmente tollerabili, sia per la consolazione che è loro unita, sia per la loro breve durata, come dice l’Apostolo: “Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria” (2 Cor 4,17). Per esse si perviene cioè alla vita eterna.
4 - Trasformando in bene tentazioni e tribolazioni.
È per questo che non si dice “liberaci dalla tribolazione”, ma “dal male”, perché per i santi le tribolazioni servono alla loro corona, e quindi essi se ne gloriano, come se ne gloriava S. Paolo quando diceva: “Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude” (Rm 5,3 5). E Tobia diceva: “Benedetto sia il tuo nome, Dio dei nostri padri... che nel tempo della tribolazione perdoni i peccati” (Tb 3,13).
Dio, dunque, libera l’uomo dal male della tribolazione quando la volge in bene: e ciò è segno di massima sapienza, perché è proprio del sapiente ordinare il male al bene. E questo si ottiene mediante la pazienza che si esercita nelle tribolazioni. Mentre infatti tutte le altre virtù si servono dei beni dell’uomo, la pazienza usa invece dei mali, e perciò essa è necessaria solo nei mali, ossia nelle tribolazioni. Si legge infatti nel Libro dei Proverbi: “Dalla pazienza si conosce la saggezza dell’uomo” (Pr 19,11).
Questo lo Spirito Santo, mediante il Dono della Sapienza, ci fa chiedere: di poter pervenire a quella beatitudine alla quale ci ordina la pace, perché è per mezzo della pazienza che noi otteniamo la pace, sia nelle prosperità che nelle avversità. E si comprende così perché i pacifici siano detti figli di Dio, ossia simili a Lui, perché, come a Dio, anche a loro nulla può nuocere, né le cose prospere né quelle avverse. Perciò è detto: “beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9).
Chiudiamo quindi la nostra preghiera dicendo: Amen, quasi come sigillo di conferma di tutte le nostre domande.
DALLA REGOLA DI VITA
art. 49: L’Orionina svolgerà le proprie attività apostoliche in stretta unione con le Responsabili dell’Istituto, onde averne direttive, aiuto fraterno e comunione spirituale; ciò contribuirà anche ad evitare dispersioni, pericoli di sbandamento e di individualismo.
DAL CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA
n. 2848: “Non entrare nella tentazione” implica una decisione del cuore. “Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore…Nessuno può servire a due padroni” (Mt 6,21.24). “Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,25). In questo “consenso” allo Spirito Santo il Padre ci dà la forza. “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e on permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,13).
n. 2850: L’ultima domanda al Padre nostro si trova anche nella preghiera di Gesù: “Non chiedo che Tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno” (Gv 7,15) Riguarda ognuno di noi personalmente; però siamo sempre “noi” a pregare, in comunione con tutta la Chiesa e per la liberazione dell’intera famiglia umana. La preghiera del Signore ci apre continuamente alle dimensioni dell’Economia della salvezza. La nostra interdipendenza nel dramma del peccato e della morte diventa solidarietà nel Corpo di Cristo nella “comunione dei santi”.
DAGLI SCRITTI DI S. LUIGI ORIONE
Dilatiamo il cuore alla più grande fiducia
Tutto è possibile a colui che crede, a chi sta fermo e umile nel Signore, in ginocchio ai piedi della Chiesa e di Chi la rappresenta. Oh ben vengano, allora, e molte e grandi, le esperienze della Fede, e Dio tutti ci assista ad attuare in noi, virilmente, santamente, la Fede! Sorretti dalla mano del Signore, confortati dalle benedizioni del Papa e dei Vescovi, non si turberanno, no, i nostri cuori.
Le prove, le sofferenze, prese dalle mani di Dio, non faranno che sopraccrescere la nostra Fede: essa arderà di nuovo ardore, risplenderà di nuova luce, e sarà vita e calore spirituale a noi, sarà vita e luce di Cristo a turbe di poveri fanciulli d'ogni stirpe e colore, ed a moltitudini immani di operai e di popoli straviati da Cristo.
Coraggio, o miei figli, ché l'avvenire è di Cristo e di chi vive di Fede, di Fede operosa nella verità e nella carità, sino a morire, sino all'olocausto, a salvezza dei fratelli.
Coraggio, e avanti nello Spirito di Fede e di fedeltà, di pietà soda, ignita; dilatiamo il cuore alla più grande fiducia, al più dolce amore di Dio e del prossimo. Dalla fede sgorga la vita! Non in parole è il regno di Dio, ma in possanza di fede e di carità in Cristo.
Siamo, dunque, forti nella Fede, ed esercitiamola con le opere della carità. Perseveranti nell'orazione, saldi nella Fede, piccoli e umili ai piedi della Santa Chiesa, Madre della nostra Fede e delle nostre anime, attendiamo tranquilli, sereni, l'ora di Dio. Il Signore, che, con la Sua mano, ha asciugato tante nostre lacrime, convertirà in gaudio ogni nostra tristezza: abbiamo Fede!
Però, non domandiamo a Gesù che ci liberi dalle tribolazioni e dalle croci - sarebbe la nostra più grande sciagura: domandiamogli di fare solo e sempre la Sua volontà, sì e come ci sarà manifestata dalla Santa Chiesa -, e questo oggi, domani e sempre, e sempre in perfetta letizia, in Domino.
PREGHIERA FINALE
Padre Santo, liberaci dal male di non amarti con tutto il cuore,
con tutta la mente e con tutte le forze.
Liberaci dal male della disobbedienza. Liberaci dal male della superbia.
Liberaci dal male dell’accidia. Liberaci dal male dell’avarizia.
Liberaci dal male dell’invidia. Liberaci dal male dell’ira.
Liberaci dal male della tristezza. Liberaci dal male del ripiegamento su noi stessi.
Liberaci dal male della vanagloria.
Liberaci dal male di non amarci gli uni gli altri come Gesù ci ha amati.
Liberaci da tutti i mali,
ma specialmente da quello di non amarti con tutto il cuore,
con tutta la mente e con tutte le forze,
perché questo è il male più grande per noi, figli tuoi.
Ascolta la nostra supplica che umilmente ti presentiamo.
Per Cristo, nostro Signore, ascoltaci ed esaudiscici,
perché sei il nostro Padre Buono. Amen.